Il buco

Ti tieni al muro, piccoli passi, uno-due, uno-due, fino alla stanza con la televisione. Ci sono tante finestre, troppa luce che ti fa ripiegare qualcosa dentro, ma vai avanti, fino al divano, ti siedi.

Ti guardi intorno. Siete tutte pettinate e vestite, tu hai i sandali laccati, non hai memoria di averli infilati. A volte danno una mano loro, le infermiere; a te quella smilza non piace, ma c’è quell’altra, quella rossa, che sorride come faceva tua figlia tanti anni fa, e che adesso sorride poco, soprattutto quando guarda te. Ti odia, lo sai.
Non riesci a capire come si faccia a odiare una madre. Non ricordi delle scarpe e nemmeno del perché ti trovi qui seduta. Ma certe cose te le ricordi, sono ciottoli nelle tue tasche. Ci passi le dita, li conti. Ne avevi tanti di sassi e pietruzze, li raccoglievi per i sentieri. Gli stessi che aveva percorso tuo padre, prima. Prima di un buco nei tuoi pensieri, un buco preciso dai margini bruciacchiati come quelli che lascia la cenere delle sigarette. Passa l’infermiera, la guardi che ballonzola. “Ha una sigaretta?”, chiedi. Ti passi una mano sulle labbra, le senti sporche. Lei ti guarda: “ma tu non fumi” dice. Tu annuisci. Ecco, non fumi.
Rimani lì seduta, tiri su col naso, c’è odore di fiori lasciati troppo nel vaso. Sei cattiva dentro? Per questo tua figlia non ti ama? La mano ti scuote, lo sguardo ti si offusca, poi si spanna. Una ragazza, porta gli occhiali, ha gli occhi piccoli dietro le lenti. “Il pulmino aspetta fuori”, dice. La segui, il tuo corpo fa questa cosa strana, sembra andare avanti e insieme indietro.

Fuori è caldo, molto caldo. Un signore che non conosci ti aiuta a salire a bordo. Ti guardi le mani sulla gonna beige, non ti sembra sia tua, quando mai hai comprato qualcosa di beige? I piedi nei sandali ti stanno stretti. Ti guardi intorno. Nessuno bada a te, li sfili, muovi le dita piano. Non sai dove state andando. “Allacciatevi le cinture, tra qualche minuto partiamo”.
Qualcuno batte le mani, è tutto un parlare, un frullare. Tu guardi fuori dal finestrino. La facciata del palazzo è color crema, un’infermiera sta fumando una sigaretta seduta sui gradini. Ti viene voglia di tornare dentro, ma il pulmino si scuote tutto, uno strappo, il mondo fuori si muove. Continui a muovere le dita dei piedi, nessuno si è seduto vicino a te. La ragazza parla al microfono, lì davanti, dice che state andando al museo. Non ti pare di esserci mai stata. Ti distrai con il pensiero di tua nipote. Da quant’è che non la vedi? Carolina, si chiama. Da quando sei qui tua figlia non viene e non la porta. Ma tanto poi tornerai a casa e lei verrà e si metterà seduta vicino a te, quei suoi dentini intorno alla cannuccia che infili sempre nella spremuta.

Vi fanno scendere in un piazzale grande, il sole ti cade addosso, si infila tra la blusa e la pelle. Non hai riallacciato bene i sandali, inciampi. La ragazza con gli occhiali si inginocchia sull’asfalto, ti aiuta. Dietro di lei la scalinata del museo sembra non finire mai. Ti fa venire in mente altre scale non sai dove, ripide e consumate e, in cima, una chiesa stretta e lunga.
Venga, si appoggi a me”, dice Occhiali e tu allunghi una mano. La sua spalla è piccola, le ossa guizzano sotto la pelle. Camminate verso la scalinata e poi su, uno scalino alla volta. In alto a destra c’è una statua grossa, nera. “Ha visto il gorilla che bello che è?”, domanda Occhiali e tu apri la bocca ma non rispondi. Guardi la bestia scura e qualcosa ti si liquefa nella pancia, no, più sotto, tra le gambe. Anche lui, la bestia, è come il buco.
E il buco ingoia, ingoia pezzi, ingoia te.

Nell’atrio è fresco, ti si allenta il respiro, Occhiali ti lascia sola, si mette al centro dello spazio, urla una specie di appello. Tu non alzi mai la mano, altri lo fanno, altri si avviano da soli verso le porte che si aprono in fondo e lei deve interrompersi per andarli a riprendere. Tu no, tu resti ferma. Forse ti lasceranno rientrare a casa già oggi, così potrai iniziare i preparativi per la cena di compleanno. Vengono tutti a casa per il compleanno di Nicola, sempre, e cucini tu ovvio, i suoi piatti preferiti.
Occhiali vi guida lungo un corridoio e poi entrate in tante sale, non le conti, non perché non vuoi ma perché ti sembra troppo. Cammini, ti siedi, guardi, statue, quadri, facce che ti osservano e ti soffiano qualcosa nelle ossa. Poi la vedi in un angolo, grande ma non troppo. Sta seduta, le mani sulle ginocchia, la gonna lunga. Le giri intorno, guardi la sua schiena curva, le pieghe sulla pancia.
Occhiali ti compare accanto all’improvviso. “Bella, vero? Vediamo come si chiama”. Si avvicina a un cartellino appeso al muro, tu nemmeno lo avevi visto, no, tu guardavi lei e pensavi che se non avesse avuto gli occhi turati dal metallo, dentro ci starebbero quelli di tua madre, verde scuro, come il bosco, come il muschio, come l’amore.
Si chiama Madre, dice qui. Forse era la madre dello scultore?”, si chiede Occhiali e ti fissa.
È la mia”, dici tu e Occhiali strizza gli occhi. “Andiamo”, dice, e tu guardi tua madre e vorresti dirle di smetterla di giocare, di sbrigarsi a tornare perché tu hai bisogno di lei.

Segui il gruppo, è pieno di cose questo posto, ma tu non le vedi più. Alla fine vi regalano delle cartoline, le scelgono a caso da un mazzo, a te tocca un quadro brutto blu e nero.
Vi fanno risalire sul pulmino, questa volta non ti sfili i sandali. Vicino a te una signora di cui non ricordi il nome russa piano, la testa inclinata, la bava all’angolo della bocca. Allunghi un dito, gliela asciughi. Non sta bene.

La pasta è gomma sotto i denti, ingoi, bevi acqua e ne chiedi un secondo bicchiere. La senti che ti riempie, tua madre ti diceva di stare attenta che sennò la pancia ti sarebbe diventata una pozza. Mi è diventata una pozza, mamma? Stringi la forchetta tra i denti. Metallo e salsa al pomodoro. Conti i bocconotti che hai lasciato nel piatto. Quattro. Ti sembra un buon numero. La signora con la gobba prova ad allungare la forchetta, tu fai di no con la testa, lei ti guarda e infilza lo stesso un bocconotto. Ti viene da urlare. Urli.
Ti solleva l’infermiera, guardi i tre bocconotti nel piatto, la gobba sorride con i denti impiastrati di pomodoro.
Su, si comporti bene, che tra poco arriva sua nipote”, ti dice all’orecchio. Ti fai portare in camera. La poltrona è dura, ha un cuscino sottile sottile color salvia.
Cosa vogliamo metterci per la visita?”, chiede l’infermiera, ti sembra il suo nome inizi con la T o forse era la esse. Non sai cosa vuoi metterti, scrolli le spalle.
Così non può stare, non si è accorta che ha una macchia proprio lì?”
Ti guardi la blusa. Rosso, più scuro al centro e più chiaro intorno. Ti viene in mente il sangue, il respiro sale su più veloce. C’erano dei conigli quando eri piccola, chiusi nelle gabbie, il loro cuore che batteva a raffica, come le mitragliatrici nei film di guerra che piacciono a Nicola e che a te fanno tappare le orecchie. Ti senti un film di guerra dietro il cuore. Guardi l’infermiera. “Sto morendo?”, chiedi, e ti viene da piangere. L’infermiera rotea gli occhi, ti allunga una maglia che ha appena pescato dal cassetto. “No”, risponde, “si metta questa, non mi faccia perdere altro tempo”.
Ti lascia qui seduta, passi le mani sulla maglia morbida. Cosa devi fare ora? Muovi le dita una dopo l’altra su e giù, le zampe di un ragno. Ti sale su un solletico che è quasi un brivido.
Il tempo è qualcosa che si attacca alle caviglie, tiepido. Ti spaventi perché dal nulla ti viene l’idea che il petto sotto la camicia non si muova più.
Aiuto”, dici.
Nonna”.
Carolina?”, chiedi, e il volto si scompone.
Carlotta, mi chiamo Carlotta, nonna”, dice.
La guardi mentre si siede sul bordo del letto, non sai cosa dire. Ha le gambe lunghe, i capelli corti alle spalle. Non è una bambina. “Bevi ancora l’aranciata con la cannuccia, sì?”
Lei si stringe nelle spalle.
Sì o no?”, insisti.
Non uso più la cannuccia da un po’”, capitola alla fine.
Se sei davvero Carolina, dov’è Elisabetta?”
Carlotta, nonna. E non so dov’è mamma oggi, sono venuta da sola”.
Strizzi gli occhi, hai la sensazione che sia sfocata, un fantasma.
Nonna, ma che hai?”
Non ho un bel niente. Tu, piuttosto, che vuoi da me? Perché mi chiami nonna? La mia Carolina è una bimba”.
La ragazza sbuffa. Tira fuori un arnese piccolo da una borsetta piccola.
Se non mi credi chiamo mamma”.
Schiaccia veloce i pulsanti, accosta l’apparecchio al tuo orecchio. Ti schiacci contro la poltrona.
Pronto?”
Non riconosci la voce, potrebbe essere chiunque.
Mamma, che succede?”
Elisabetta?”
Sì, sono io”.
Non sembra”.
Cosa?”
Non sembra che sei tu”, dici piano, e dentro qualcosa slitta in avanti.
Tuo padre è con te?”, chiedi, perché ti pare il modo più semplice per accertarti che non siano tutti impostori.
C’è silenzio all’altro capo dell’arnese di plastica che la ragazza ti tiene contro l’orecchio. Lei non ti guarda più in faccia. Guarda in basso e hai paura che noti le tue dita storte, strette nei sandali.
Mamma…”, la parola ti fa frizzare l’orecchio.
Sì?”
Papà non… papà non c’è più da un po’”.
Cosa vuol dire? Tra poco è il suo compleanno. Appena torno a casa devo preparare per la festa, a proposito…”
Mamma”, ti interrompe e vorresti dirle che è maleducata, ma la sua voce non è più come prima, non esattamente.
Mamma, papà è morto. Non ti ricordi nemmeno questo?”
Cosa vuol dire?, pensi ma non dici. Dov’è che è adesso e dov’è che sei tu?, non dici nemmeno questo. Resti immobile mentre la ragazza che dice di chiamarsi Carlotta ritira il braccio e con quello la voce di Elisabetta. La senti parlare ma non sai cosa dice. Sai solo lo stridio che hai nelle orecchie, monta piano e cresce. Un motore inceppato, il tosaerba dei vicini, le macchine che sibilano, la faccia di tua madre nascosta dalle mani, un buco, un buco e basta, ecco quello che era rimasto, così aveva detto. È rimasto un buco su in montagna.
La ragazza rimette il trabiccolo di plastica nella borsetta, si alza, fa un passo verso di te ma poi si ferma.
Io vado, nonna”.
Provi ad alzarti, punti le mani contro i braccioli della poltrona, ma le braccia fanno resistenza. La guardi con la mano sulla maniglia, le labbra strette. “Mi dispiace”, dice prima di uscire.
Le dispiace di cosa?, ti chiedi.
Sul comodino c’è la spazzola, la prendi, è fresca contro le dita bollenti. Chiudi gli occhi e inizi a passartela tra i capelli. Cos’è che ha detto Elisabetta? Si è segnata la data della cena? Dirà a Nicola di darsi una mossa e di venirti a prendere?
Ti pettini e nella tua mente c’è un’altra mano.

2 Replies to “Il buco“

  1. In poche righe è descritta la vita “ smarrita” di molte persone a noi care. Profondo e commovente.

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