La teoria del nudge (che si potrebbe tradurre come “spintarella”) è un recente filone di ricerca in economia comportamentale, sviluppato dal premio Nobel Richard Thaler.
Sostiene che piccoli incentivi indiretti e in apparenza marginali verso determinati comportamenti e decisioni possono rivelarsi ben più efficaci di quelli direttamente quantificabili da agenti razionali, e avere importanti conseguenze a livello aggregato.
Era stata una delle carte che mi ero giocato nel mio colloquio di assunzione alla Banca Centrale Europea, per motivare un’affermazione che avevo fatto circa i limiti dei modelli macroeconomici con aspettative razionali. Philip, il presidente della commissione, aveva annuito soddisfatto. Questa risposta mi era valsa il vittorioso rientro a Francoforte, dopo una pausa di poco più di un anno durante la quale avevo tentato (con scarso successo) di imbastire una carriera accademica in Italia.
La mattina del mio primo giorno di lavoro, mi trovo nell’atrio della BCE in attesa di essere chiamato per la induction session. Anche se non è la prima volta che lavoro là, tecnicamente sono un nuovo dipendente, quindi la induction session mi tocca seguirla. Ma so già a cosa vado incontro, ho già un bel gruppo di amici in banca e so come muovermi. Per cui non mi sento affatto spaesato e intimorito come gli altri newcomers. Che lo siano, lo deduco dal fatto che hanno formato un piccolo capannello, si guardano in giro commentando i locali della banca, i loro futuri colleghi che entrano al lavoro, o magari gli appartamenti ammobiliati in cui sono stati sistemati. Ma di cosa parlino esattamente non lo so, perché io me ne sto in disparte, a una decina di metri di distanza dal capannello, appoggiato a una colonna portante decorata da un mosaico con delle facce sorridenti che dovrebbero rappresentare le varie nazioni che compongono l’Unione Europea. Una somiglia ad Alberto Sordi: dev’essere l’archetipo dell’italiano.
Si sgancia dal capannello e viene decisa verso di me una ragazza. Bionda, occhi verdi vispi, sorriso splendente, perfettamente proporzionata. Porta un tailleur grigio piuttosto ordinario, a tracolla una borsa di quelle da laptop da cui sbuca un quotidiano giallognolo, temo «il Sole 24 Ore». La fisso, più meravigliato di vedere un esemplare del genere in un ambiente notoriamente parco di presenza femminile che ammaliato dalla sua oggettiva bellezza. Mi tende la mano: “Ciao, io sono Elisa, sei italiano?” Le vorrei chiedere da cosa lo avrebbe capito: va bene che ho un colorito abbastanza scuro, ma potrei tranquillamente passare per francese, o spagnolo, o pure cipriota. Voleva essere un complimento? Invece lo prendo come un biasimo alla mia ritrosia nel fare comunella, o peggio come un tentativo di includermi, e metto subito le mani avanti: “Sì, ma non è che sono timido, è che già ho lavorato qui e non mi serve davvero perdere una mattina con la induction session. Preferirei andare subito in ufficio a salutare i miei amici.”
Fortunatamente interrompono la nostra conversazione due dipendenti delle risorse umane che ci scortano nella sala seminari in cui si tiene la induction session. Elisa cammina al mio fianco ma, appena si avvicina a una sedia, altri due newcomers da dietro si fanno prepotentemente strada e le si siedono accanto.
Il caso vuole che Elisa sia stata assunta come stagista nella mia stessa divisione. Ci piazzano a due porte di distanza. Io ho un ufficio singolo, lei lo condivide con un’altra stagista greca che è lì già da qualche mese. Appena accendo il computer e apro la posta, ci sono già un pugno di mail dei miei amici che mi chiedono “chi è quella nuova, quella fica?” I più infoiati sono Roffe, uno statistico che d’abitudine tiene sotto controllo i nuovi arrivi e manda in giro per commenti le foto pescate dalla rubrica telefonica interna, e il Giglioli, un quarantenne di Pontedera perennemente in cerca di distrazioni dall’evidentemente mogio ménage familiare. Io rispondo facendo il vago: “Certo, è molto carina, ma fuori da questo palazzo ce ne saranno a migliaia come lei. E poi dev’essere pure berlusconiana, si è vestita come un’aspirante manager di Publitalia e si è pure portata dietro «il Sole 24 Ore».” Sono appena arrivato e questa qui già ha polarizzato l’attenzione dei miei amici. Per parte sua, dopo nemmeno mezz’ora che si è sistemata, la sento ridacchiare sguaiatamente con la sua nuova amica.
Vado a presentarmi al mio nuovo capodivisione, e quando rientro trovo di nuovo la mailbox ingolfata. Stavolta sono i newcomers. Elisa ha creato una mailing list e ha lanciato la proposta di andare insieme a correre al fiume e poi in sauna l’indomani. Tutti aderiscono con entusiasmo, in particolare il ciccione turco-tedesco che le si era seduto accanto durante l’induction session. Me lo immagino arrancare mentre lei corre leggiadra, sorretto solo dal pensiero di vederla poi nuda in sauna. Mi sembra una scena divertente e la scrivo ai miei amici, inoltrando loro la mail originale. Poi rispondo all’invito di Elisa: “Sorry, I can’t make it.” Non riesco a trattenermi dallo specificare: “I’ve already booked something with my friends.” Dei miei amici risponde solo Roffe, telegrafico: “Beato lui che le vede le pere.”
La mattina dopo, Elisa si affaccia nel mio ufficio e mi invita a fare colazione insieme; è ovvio che non posso ancora essere indaffarato, e non ho scuse plausibili per rifiutare. Alla caffetteria, lei ordina un espresso, io la mia solita camomilla: scelta improvvida perché ci mette un bel po’ a raffreddarsi e prolunga la nostra conversazione. Mi sembra che ci guardino tutti; pure Philip, il nostro direttore generale, che siede a due tavolini di distanza. Elisa inizia chiedendomi della mia esperienza passata e di come mai abbia deciso di tornare a Francoforte, ma dato il tono laconico e evasivo delle mie risposte, prende ad annegarmi in variazioni sul tema di quanto è felice e orgogliosa di aver ottenuto uno stage alla BCE: si è laureata alla Bocconi in economia monetaria e lavorare per l’Europa è sempre stato il suo sogno. Mi sembra che mi stia parlando come se fosse a un colloquio motivazionale e le dico che non serve: il posto già lo ha avuto e comunque non deve certo impressionare me, che sono l’ultimo arrivato e non conto nulla. Vagamente contrariata prova a obiettare ma poi decide di lasciar perdere e passiamo a parlare d’altro: mi chiede quali sono i posti interessanti dove andare nel fine settimana. Senza neppure doverci pensare, le sfoggio con entusiasmo il Cocoon, dove in effetti ho in mente di andare: quasi a voler celebrare il mio rientro, venerdì sera ci suona Apparat. Le racconto che ci siamo presentati durante una sua serata a Prato un anno prima, e tutti ci hanno detto che sembriamo gemelli. Quindi, se ce ne sarà modo, tenterò di salutarlo e di farmi caricare in consolle. Lei annuisce e sorride, non particolarmente impressionata né interessata, a quanto pare.
Tornato in ufficio, constato che altri colleghi, senza nemmeno salutare il mio rientro, si sono premurati di scrivermi per chiedere conto della ragazza con cui stavo facendo colazione. E poco più tardi, a mensa con i miei amici, mentre sono in coda alla cassa sento una mano sul culo. “Hi, handsome!” Lo dice apposta in inglese, a voce alta, per farsi sentire da tutti. Poi mi passa accanto e mi stampa un bacio sulla guancia. Alcuni colleghi della divisione, poco più indietro, ridono e uno ci apostrofa in accento francese: “Hey, come on, this guy has a girlfriend!”
Venerdì sera, appena entrato al Cocoon con Roffe, noto subito Elisa col gruppetto dei newcomers: sta ballando davanti al ciccione turco-tedesco che strabuzza gli occhi, mentre un altro stangone polacco con la faccia da ebete le si struscia addosso da dietro. Mi faccio avanti per salutarla e presentarle il mio amico, vagamente compiaciuto che abbia seguito il mio consiglio per la serata. Ma ci mette poco a ghiacciarmi: “Che musica strana che c’è qua, mi sa che noi ce ne andiamo. Non conosci un posto dove fanno reggaeton?”
Il martedì seguente la vedo che pranza con Roffe e inizio a temere il peggio. A ragione: rientrato in ufficio, il mio amico ci annuncia via mail che le ha esteso l’invito per la serata di giovedì, quella in cui avevo invitato i miei amici per inaugurare la terrazza del mio nuovo appartamento con una partita a Risiko. Nemmeno ho il tempo di metabolizzare l’annuncio che Elisa si palesa davanti alla porta del mio ufficio con la sua amica greca: mi chiede se può portare anche lei.
Giovedì sera, Elisa e Kleo si presentano a casa mia in leggero anticipo mentre io sono ancora a lavoricchiare ascoltando Aphex Twin. Portano in dote una bottiglia di vino e una sacchettata di stuzzichini: patatine, olive, sottoli. Si sistemano sul divano mentre io apro la bottiglia e spacchetto gli stuzzichini. Elisa mi raccomanda di fare attenzione perché sente rumore di qualcosa che sfrigola in cucina (è Ventolin di Aphex Twin), e procede ad accendere la radio su una stazione di musica commerciale. Poi arrivano Alberto e il Duca con la scatola del Risiko, la buttano sul tavolino dell’ingresso (dove rimarrà per l’intera serata) e si presentano. Per ultimo si palesa Roffe, in grande spolvero: profumato, vestito con una maglia che ne mette in risalto il fisico muscoloso e con in mano una bottiglia di pregio. Ma purtroppo per lui Elisa quella sera non ha occhi che per Alberto. In terrazza parlano fitti dividendo sigaretta e bicchiere, lui le racconta dei suoi viaggi e delle sue esperienze di volontariato in Sudamerica, lei chiaramente pende dalle sue labbra. Tuttavia Alberto è una persona corretta, è felicemente fidanzato oltreché profondamente cattolico e non si approfitterebbe mai della situazione.
Elisa però non demorde, e nei giorni successivi mi elegge a strumento per raggiungere il suo obiettivo. Mi chiede consiglio su come vestirsi e truccarsi, e la sera mi chiama per sapere dove siamo e dove andiamo, per cercare di incrociarci “casualmente”. Riesce alla fine a imbucarsi a una cena a casa del Giglioli durante la quale Alberto fa di tutto per tenere le distanze: si siede lontano da lei, non reagisce alle sue battute, rivolge ad altri le sue attenzioni. Lei ci rimane visibilmente male, mi dice all’orecchio che non ce la fa più e che vuole andarsene. Cerco di placarla: siamo in una zona relativamente periferica e Alberto si è impegnato a riaccompagnarci a casa. Forse questa prospettiva la risveglia, e a buona ragione: una volta in macchina, lontano dagli sguardi degli altri, Alberto si scioglie e finalmente ride e scherza con Elisa. Arrivati sotto il suo miniappartamento, lei ci invita a salire. Alberto sembra titubante e mi guarda con aria interrogativa. Lei interviene: “Ma dai, venite su entrambi, che vuoi che succeda?”
Ridendo apriamo una bottiglia e poi un’altra ancora, vinacci dozzinali che vanno subito alla testa. Si è fatto veramente tardi, e la combinazione di sonno e ebbrezza mi suggerisce che è ora di togliere le tende. D’altra parte, non posso certo andar via e lasciarli lì in balia l’uno dell’altra. La trovo un’ottima scusa per concedermi un ripiglino. Mi ritiro in bagno senza offrirla: conosco bene le idee di Alberto in materia, e Elisa non mi sembra proprio il tipo. Ci metto un bel po’: il bagnetto è angusto e non ci sono superfici adatte, per cui alla fine mi tocca ripiegarmi sotto il lavandino e stenderla sul coperchio della tazza del cesso. Quando esco, Alberto è sopra Elisa e se la sta avidamente slinguando. Da come sono posizionati sul divano pare che sia stato lui a saltarle addosso, alla fine. Sovraeccitato, rido sguaiatamente e gli grido: “Oh, finalmente!” Lui si desta, mi guarda con un’espressione vuota e preoccupata, poi si alza e si scuote la giacca: “Andiamo via dai, ma che ci siamo venuti a fare qua?” Elisa, forse non sorpresa ma sicuramente ferita da quella reazione, mi guarda e mi dice con inattesa gravità: “No, tu rimani da me, per favore.” Mentre lentamente mi scende, Elisa parla, parla e si commuove, si tormenta a chiedersi cosa avrebbe dovuto fare con Alberto, tira dentro i suoi ex ragazzi e tutti gli altri affari suoi. E io ascolto, annuisco, mi faccio scorrere addosso i suoi pensieri senza pretendere di tirarne le fila, come se mi potessero entrare dentro per via di osmosi. Va avanti così fino all’alba, io mi addormento sul divano.
Com’era prevedibile, dopo quella serata Alberto chiude ogni rapporto con Elisa; mi impone silenzio assoluto. Per parte mia, lo aiuto dissuadendo Elisa da qualsiasi ulteriore proposito nei suoi confronti. Alla fine, dopo un paio di settimane, la cotta per Alberto si affievolisce, e lei ripiega su altre frequentazioni.
A me resta però il ruolo di confidente eletto, che sempre più mi godo, anche da sobrio. Soprattutto quando, la mattina seguente qualche incontro galante, mi racconta degli approcci ridicoli quando non grotteschi che ha subito. Particolarmente gustosi sono quelli ascrivibili a persone a cui posso associare un volto, talvolta colleghi anche più anziani. Questo cementa la nostra amicizia in forma esclusivamente bilaterale, ovvero segregata dalle nostre reciproche frequentazioni, e le consente di sopravvivere indenne alla fase successiva: quella del fidanzamento di Elisa con un surfista catalano tanto supponente e antipatico quanto avvenente, atletico e abbronzato.
Dopo diversi mesi, il contratto in scadenza, Elisa decide di seguire il fidanzato negli Stati Uniti, dove lui si è da poco trasferito per iniziare un programma di dottorato. La sera prima del suo volo per Boston, lasciato il suo miniappartamento, Elisa viene a dormire da me. L’idea è di servirle una tranquilla cenetta di chiacchiere e saluti: ha un taxi prenotato per le 8 l’indomani mattina. Appena arrivata, Elisa va a sistemarsi e a posare le sue valige nella stanza degli ospiti. Poi mi raggiunge in cucina e appoggia sul tavolo con fare teatrale una fialetta di plastica trasparente. La fisso con orrore e levo le pupille: come le è venuto in mente di aprire il cassettino della scrivania? Mi toccherà di certo un predicozzo.
Invece mi sorprende ammiccando: “Mi cucini questa stasera?” Perché no, ovviamente: metto subito sul fuoco una padella, e allo stereo i Massive Attack. [We flew and strolled as two, illuminated gently. Why don’t you close your eyes and reinvent me?] Le faccio presente che a averlo saputo prima ci saremmo potuti divertire di più, ma che lei non mi sembrava proprio il tipo. “Hai ragione, non lo sono, ma se non lo facciamo stasera non lo facciamo più.” [I could be yours, we can unwind.] Spadello con garbo mentre i cristalli iniziano a formarsi. “E guarda che mi ero accorta di queste tue inclinazioni. Non racconti mai niente di te, ma proprio da questo si capisce che c’è un abisso sotto la superficie.” [All these are flaws.] Mentre polverizzo con il badge della banca, le rispondo che non racconto di me proprio perché mi sento diverso dagli altri, e non voglio esporre le mie debolezze e i miei lati più discutibili al mondo in cui lavoro e vivo. “Questo vale un po’ per tutti però; dovresti piuttosto imparare a capire a quali persone puoi dare fiducia.” [We can unwind all our flaws.]
Stendo quattro righe piccole, e attacco la prima. Stimolato da questa inattesa esperienza in condivisione, inizio a parlare a ruota libera. Elisa aspira prudentemente, poi mi fissa e ridacchia mentre le sue pupille iniziano a dilatarsi. Io la prendo lunga. Parto dagli anni del liceo e dei giochi di ruolo a Firenze. Passo per la spiaggia di Tirrenia e per il piazzale davanti all’Insomnia. Poi torno indietro e faccio entrare mio cugino, l’infanzia e gli anni del collegio. Ne stendo altre quattro più grosse. Le parlo di quello che ho studiato e di come ci sono capitato. Le racconto degli amici che anche lei ha conosciuto, di quello che trovo di diverso in ognuno di loro. Le dico come funzionano le cose con la mia ragazza e come ciò spiega il mio rientro a Francoforte. Preparo l’ultima, e ce la dividiamo aspirandola insieme. Le dico quanto trovo beffardo diventare adulti, prendersi il proprio posto in società, e vedere tutte le porte del possibile che si chiudono alle proprie spalle. Cerco di farle capire che è spaventoso la mattina guardarsi allo specchio e chiedersi per quanto tempo ancora riuscirai a ingannare tutti. Non ce n’è più. Elisa spontaneamente incamera gli ultimi rimasugli sulla padella, mi si siede in braccio e guardandomi dentro dice: “Ora spiegami perché non ti piaccio.”
“L’hai detto tu, perché non sono come gli altri. E a te piacciono gli altri, è evidente.”
“Non hai risposto alla mia domanda. Hai detto solo perché tu pensi di non piacere a me.”
“È vero, hai ragione. È perché non mi guardavi come mi piace essere guardato. Come uno che è interessante e prezioso proprio perché non è come gli altri. Come mi stai guardando adesso.”
Un grammo. Una spintarella di appena un grammo. Bastava così poco per averci nel modo in cui ci volevamo.