Vita vegetale

Adesso che una manciata di tubi palesa le tue funzioni elementari, e la tua mente è lontanissima dal cervello, fratello io provo a titillare la tua memoria, come quando lanciavamo le monetine nella fontana turata dai lepidotteri e tentavamo la fortuna.

Chi perdeva infilava la mano nell’acqua verde, tra licheni crostosi e spirogire brillanti, e ripescava una a una le monetine che erano andate a segno. Poi si ricominciava. Ed era diverso il suono dell’acqua da quello del cemento, come il ricordo è diverso dal fatto. Sono sette notti che ti veglio, che ti parlo… Mi senti? Ti sveglierai? Cerca di seguirmi.

È la prima estate nella casa nuova. Quel condominio in mezzo alle risaie ci è sembrato fin da subito una nave futurista arenata su un fondale di asfalto nero; le finestrelle a oblò e le pareti ricurve in acciaio inox scintillano come le squame di un pesce robotico. Per quindici anni abiteremo in una nave che imita un pesce che imita una casa. Il costruttore si è divertito a giocare con le forme, ma sembra aver dimenticato i fondamenti della sua scienza: i muri scottano e dal lavandino sale puzza di fogna, cosa che negli anni porterà nostra madre al tracollo psichico, o almeno così la vedo io.
A causa di questi difetti di costruzione, o forse per via di quell’aria desolata, siamo gli unici inquilini della palazzina A. Non ci sono altri bambini. Per diverso tempo sentiremo soltanto la disperazione dei neonati e i latrati dei cani. Ma siccome siamo arrivati prima di tutti, ci spetta l’appartamento con il balcone, al terzo piano. Dal balcone arriva il boato oceanico della provinciale. Dal balcone vediamo loro.

Dai, vieni!

Passiamo ore a guardarli. Non sappiamo niente di quello che c’era prima, ma è chiaro che ci disprezzano. Il nostro vascello fantasma ha gettato l’ancora di fronte ai loro giardini, privandoli della luce del sole. Per colpa nostra il giovane melograno non dà più frutto, ed è necessario alzarsi e spostare la sdraio quattro o cinque volte in un pomeriggio, se si ha a cuore l’uniformità dell’incarnato. La signora con la fenice azzurra sulla schiena ne approfitta per sistemarsi il costume. Ricordi come ti piaceva? L’aroma tropicale dell’autoabbronzante vaporizzato sulle palpebre abbassate, il tintinnio dei bracciali da bigiotteria mentre scrupolosamente, in piccoli, amorosi cerchi, sulle spalle, sul collo, lusingando l’uccello immortale…

Tra qualche anno comincerà la stagione degli incendi: le carrozzerie dei suv prenderanno ad accartocciarsi su se stesse, i bidoni dell’umido, stanati dalle molotov casalinghe, esploderanno come torte nuziali, e il vecchio che si masturba davanti alle ragazzine sarà ritrovato al capolinea del tram nuovo, un manichino carbonizzato in una pozza di lambrusco da discount. Ma per il momento questo è un quartiere tranquillo. Qui la gente viene per dormire, accudire aceri giapponesi, la domenica gonfiare piscine di due metri per uno ed equipaggiare i figli con braccioli turgidi. Perché, poi? A che servono? Dal nostro balcone osserviamo i corpi bianchicci che si staccano dal bordo della pedana, le ginocchia raccolte in pancia, addirittura un tonfo… Forse le loro piscine hanno il doppiofondo? È per questo che quei cretini gridano come maiali? Per questo, o perché sono tanto felici di vivere nelle villette a schiera? Per questo, o perché ridono di noi?

Tirami su.

Tu sei piuttosto basso per la tua età, non arrivi nemmeno al corrimano, ma hai una mira di gran lunga migliore della mia. Mi basta prenderti sulle spalle, metterti in mano un sasso bello piatto e dirti dove colpire. Tiri, e mentre l’elastico della fionda si rilassa le corde più sottili che hai in gola iniziano a vibrare e si moltiplicano, come se una falena sbattesse le sue ali contro le pareti della tua trachea. Godi soprattutto quando centri l’annaffiatoio del vecchio con il barboncino: il suono della pietra sul ferro raggiunge la piccola coclea pelosa nella forma amplificata di un gong rituale, terrificante, non lasciando altra scelta alla bestia che abbaiare ai fantasmi. Ti piace vedere quel corpicino lanciato indietro dall’onda d’urto dei suoi stessi abbaii, e imitarlo per ore, e ore, e ore e ore…

Di solito non facciamo danni seri, ma loro vengono lo stesso. Quando suonano il campanello ci chiudiamo a chiave in bagno e schiacciamo l’orecchio contro la porta. Non entrano mai. Dicono che il vaso rotto, l’ammaccatura sulla portiera fresca di vernice sono solo un pretesto: da sempre volevano fare la nostra conoscenza. Spiegano che non sono abituati ad avere dirimpettai, che sono sempre stati soli contro gli sfavillanti tramonti estivi e gli acquitrini di ottobre e novembre. Descrivono nei minimi dettagli la progressiva vittoria delle zanzare tigre, cinesi, sulla specie autoctona: le femmine, ormai asservite all’accoppiamento con gli invasori, da un po’ di tempo sembrano essersi instupidite, e ronzano pigramente vicino alle mani, come implorandoti di mettere fine a quella disgraziata progenie.
Tu mi guardi: ciglia lunghe si irradiano da un nucleo dilatato dalla luce, dalla fame, dall’incredulità. Di che parlano queste persone? Che cosa vogliono? Un colpo di vento scosta la tenda del bagno e un ago luminoso punge uno dei tuoi parameci tondeggianti, che si ritira, si chiude in se stesso, poi torna a guardarmi. Usciamo? Possiamo uscire adesso? In questi anni venivi nei miei sogni, mi guardavi e non dicevi niente. Tante volte, nell’ottundimento di un piano interrato in una qualche cittadella della scienza, ho immaginato di cavarti gli occhi, annegarli in una miscela di acqua e liquido di Carnoy, fissarli dentro a una caramella di paraffina – per non farli cambiare mai, nemmeno da morti –, sigillarli tra due vetrini sterili con una molecola di blu di mitilene – una reliquia da faraoni, un dolcetto per lo sballo –, affacciarmi all’oculare e trovarci te: a quindici, a vent’anni, mio fratello a venticinque anni nel completo grigio di papà. (Non eri convinto, vero? Il giorno del tuo matrimonio. A me puoi dirlo.) Anche se sono anni che non ti guardo negli occhi, so che mi basterebbe sovrapporre una lastra ottica di grandezza appena maggiore – due, tre gradi al massimo – per ottenere la successione esatta di tutti i tuoi stati, di tutti i tuoi accadimenti. Adesso che anche i più mediocri modelli della fisica hanno spezzato la freccia del tempo, sappiamo che l’evoluzione conserva gran parte di ciò che supera. Tutto quello che siamo stati è ancora con noi. Tutto quello che siamo stati, lo siamo ancora.

Per esempio, è probabile che le tue pupille custodiscano un fotogramma come questo: le porte specchiate dell’ascensore si richiudono sul sorriso scintillante degli estranei. Sono andati via, sono andati via! La prossima volta gliela facciamo pagare, gliela facciamo vedere noi, vero? Io non rispondo, guardo attraverso lo spioncino. Nostra madre si è scalzata lo zoccolo destro e procede zoppicando verso il nostro nascondiglio. Non deve far altro che aspettare: i suoi figli apriranno. Del resto non fanno sempre questo i cuccioli d’uomo, contro qualsiasi istinto di sopravvivenza? Amano i loro genitori prima di imparare a fare il contrario.

Ogni colpo è accompagnato da parole che udiamo appena, interrogazioni metafisiche incastonate in ecchimosi sparse sulle braccia, sul collo. Perché vi comportate male. Non pensate mai a quello che fate. Perché non ascoltate quando vi parlo. E mentre io incasso e imparo la trascendenza, gli occhi persi nella maiolica adesiva che incornicia lo specchio, tu, protetto sotto la mia pancia, piangi. A volte ti pisci addosso, oppure hai un’erezione. (Pensavi che non me ne accorgessi? E come, se quello che succede a te è sempre stato anche mio?) Vent’anni dopo torno in quel bagno di via Kennedy, in quel tempo fatto di tanti tempi, porosi e calcarei, basaltici, con concrezioni di pirite e conchiglie, un tempo che ha al centro un’icona spruzzata d’oro con tre figure erose dagli acidi, ormai praticamente un test di Rorschach: una donna protegge i suoi figli. O forse li uccide?
Quando si stanca, nostra madre fa cadere lo zoccolo per terra e si trascina fino in camera, abbassa la tapparella, accende la lampada di sale e si butta sul letto, in preda ai deliri dell’emicrania. Dopo un po’ la raggiungiamo anche noi. Mentre tu corri a rannicchiarti con la testa contro la sua pancia io rimango in piedi, nel vano della porta, fino a quando, nell’aria colorata di rosa e di quarzo, lei stende la mano verso di me. La sua mano, il suo braccio. Il suo lungo ramo irresistibile…

Che splendido innesto siamo stati! Sarebbe potuta andare avanti così per sempre, vero? Noi tre nella casa pesce, il televisore al plasma spalancato su sistemi solari disegnati in tempo reale da squadre di programmatori nottambuli, armi retrofuturiste che esplodono i loro colpi nell’aria immobile interferendo con gli incroci delle posate e la sigla del telegiornale, alle otto in punto la cena, nostra madre che ci sequestra il joystick per obbligarci a mangiare, mangiare qualsiasi cosa mangi lei, per l’eternità, e nella realtà aumentata come in quella di grado zero nessuna missione, nessun progresso: solo puro svolgersi di forme e contesti. Saremmo andati a scuola e i nostri voti sarebbero stati suoi. Avremmo fatto sesso pensando a lei. Stipati nel vagone della metropolitana, ciascuno nella propria città, le avremmo scritto lo stesso messaggio di auguri, alla stessa ora benedetta, nel giorno del suo duecentoventicinquesimo compleanno.

E invece ho accettato quel lavoro in Germania e per anni non avete più saputo niente di me. So che non mi hai mai perdonato la partenza, e che mi consideri responsabile di quello che è successo a lei. E anche se c’è una ragione per cui ho fatto quello che ho fatto, è probabile che non sarò in grado di spiegare niente: tutti questi anni nella ricerca mi hanno insegnato che ciò che davvero importa è oscurato. La verità non si raggiunge per prove ed errori, né può essere dimostrata. Mentre la scienza progredisce la verità resta indietro, allungando la sua ombra.
Perché scappare? Perché sparire? Ogni volta che cerco di rispondere a questa domanda, dal fondo dell’acqua verde riscatto una moneta ossidata. Tra le venature azzurre che solcano la faccia di ottone opaco, circondata dalle lettere del motto nazionale, indovino la figura di un albero. È l’albero di fronte a casa nostra, il giorno in cui sono venuti a prenderselo. Era proprio una di quelle domeniche, ti ricordi? Eravamo in balcone, e come sempre insistevi perché ti prendessi in spalla.

Sta’ buono, aspetta.

Il pick up era arrivato verso le undici del mattino. Erano scesi due ragazzi. Uno indossava una camicia a quadri, l’altro portava un orecchino d’oro. Mentre quello con l’orecchino sganciava il portellone e faceva scivolare la scala lungo il cassone, l’altro raggiungeva il cancello e premeva con forza il pulsante del citofono. Avevano l’età che hai tu adesso.
La portafinestra si era aperta a scatti e qualcuno aveva cominciato ad armeggiare con la zanzariera. Dopo qualche secondo si era affacciata una piccola signora dall’aria stanca. La vedevamo spesso fumare in silenzio, di notte. Sembrava sempre così triste che non ci era mai venuto in mente di darle fastidio.
La signora aveva fatto segno ai ragazzi di entrare. Il ragazzo con l’orecchino d’oro aveva appoggiato la scala alla siepe e i due erano risaliti lungo il vialetto. A metà strada il ragazzo con la camicia a quadri aveva rallentato e si era tolto il berretto. Seguii il suo sguardo e finalmente la notai, seminascosta sotto il grande albero al centro del cortile: la ragazza della finestra di fronte.
Viene a far visita di rado, ma si ferma a lungo. Suona il pianoforte, le piace girare nuda per casa. Ogni tanto si vedeva qualcosa, ti ricordi? Tra i rami dell’albero di fronte alla finestra. È un abete altissimo. Sarà uno di quegli alberi che le famiglie piantano quando nasce un bambino? Nostra madre ci ha raccontato che dalle sue parti si usa così. La chioma è stata sfoltita e in cima si affloscia un po’, ma il terreno è smosso da radici ampie e profonde, che hanno scomposto la geometria delle piastrelle. Quando i nostri sassi penetrano tra i rami, le colombe sbattono le ali fino al tetto di tegole rosse, i merli, i passeri, le rondini schizzano in cielo e si ricompattano in un messaggio extraterrestre. È come una bomba di piume, come rivelare la vita. Allora la ragazza spalanca le persiane e si sporge dalla finestra per seguirne il volo. È arrabbiata? Preoccupata? Sa che siamo stati noi? Non c’è tempo di capire niente: le rondini hanno già rotto le file, merli, passeri e colombe tornano ai nidi, e la ragazza, ultimo ingranaggio del presepe meccanico, accosta le persiane e spegne la luce. Non siamo mai riusciti a capire quanti anni avesse. Quella mattina era la prima volta che la guardavo da così vicino: volevo averla tutta per me.

Che succede?

Forse gli parlava? Vedevo le scarpe di tela azzurre, le braccia che circondavano il tronco dell’albero. Il busto era un po’ torto, il collo piegato per farsi strada tra i rami più bassi. Com’è pietoso l’abbraccio tra due specie diverse… L’incongruenza delle anatomie produce vuoti dove dovrebbero esserci pieni, goffaggine negli slanci. Forse è per questo che quando ti abbraccio, quando mi chino sul tuo sottobosco di tubi, lenzuola sterili e sacche parenterali, l’infermiere ride di me. E sai cos’è peggio? Che ciononostante domattina, quando ti smantelleranno, è per me che si dispiacerà, non per te. Perché mentre dentro di te accadrà l’irreparabile – una volta finito l’ossigeno le pompe ioniche smetteranno di funzionare, allora il citosol comincerà a imbarcare acqua, i reticoli endoplasmatici si stireranno fino a rompersi, brandelli di membrana spiraleranno, come motori corrotti da giri impazziti, e mentre la cromadina si rannicchierà preparandosi al collasso, ciglia e microvilli prenderanno il largo nell’infinito vuoto extracellulare, e questo accadrà quasi simultaneamente dentro miliardi di gonfie, pallide cellule, miliardi di facce con la bocca piena d’acqua pronte a esplodere in una risata autofaga al primo segnale di resa, ed ecco i tuoi organi collassare uno dopo l’altro, con la lentezza dei ghiacciai, prima il cervello, poi il cuore, il fegato e tutto il resto, sotto l’ultima tempesta elettrica del tuo cielo interiore – mentre accadrà tutto questo tu, fuori, resterai uguale: il viso appena più disteso, più freddo soltanto di un grado. E quando l’ultima piastrina sarà precipitata dalla clessidra dei tuoi gomiti e i batteri cominceranno a calare sul tuo impero decadente, l’infermiere sarà già incolonnato nel traffico con il camice arrotolato sotto ai piedi. Morirai in silenzio, come muoiono le forme di vita più misteriose. Io, invece, piangerò lacrime che lui potrà vedere.

Dopo qualche minuto i due boscaioli furono di ritorno. La ragazza si era seduta in disparte, a gambe incrociate. Il ragazzo con la camicia a quadri aprì la scala e l’appoggiò al tronco. Ne provò la stabilità, la spostò di una decina di centimetri. Assicurò la motosega alla cintura e salì fino all’ultimo gradino. Poi tirò la fune di avviamento.

Tirami su, fammi vedere!

Com’era diverso dal tagliaerba dei vicini! E anche dai mitra e dai bazooka che sputavamo dalle nostre bocche nella tromba delle scale. Le stragi che consumavamo il sabato – inseguirsi rampa per rampa fino alla cupola dell’ultimo piano, ultimo cielo aristotelico contro il quale, ormai col buio e con le stelle, scaricare tutta la saliva che abbiamo in corpo, che torna a bagnarci: la mia la tua, la tua la mia – erano la risposta a quella geometria di prati curati e arbusti tosati, al loro ordine che insultava l’esuberanza del nostro mondo. Il nostro mondo, dove persino il basilico da supermercato cresceva smisuratamente, sotto una pioggia di uranio e raggi ultravioletti. Non avremmo mai potuto essere come loro. Eravamo più alti di loro, avevamo occhi più grandi. Solo quell’albero, con la sua altezza parabolica, ci somigliava.

Al terzo tentativo la barra di guida trasmise il movimento alla catena, che cominciò a girare. Il ragazzo con la camicia a quadri impugnava la motosega con entrambe le mani, mentre il motore a scoppio faceva sussultare tutto il suo corpo. Comincio da quello lì, disse, indicando uno dei rami esterni. Si sporse un po’ e avvicinò la punta della motosega al ramo, come se volesse fare una carezza: il ramo scricchiolò e cascò d’un colpo, portandosi dietro aghi, filamenti di corteccia, i resti di un nido. Con un gesto quasi galante, il ragazzo lo afferrò al volo e lo fece oscillare un po’, prima di abbandonarlo in caduta libera sul prato.
La ragazza era immobile. Con uno scatto, la donna aprì la zanzariera e le gridò di allontanarsi. Il ragazzo con la camicia a quadri sganciò il moschettone e diede un giro di corda intorno al tronco. Strattonò un poco i due estremi per verificarne la tenuta, poi riagganciò il moschettone alla cintura. Poggiò il piede destro sul moncherino del ramo appena tagliato, quello sinistro su un ramo ancora intatto, e salì di una trentina di centimetri. Di nuovo, tirò la fune.

La morte è un fatto puntuale; il resto si chiama morire. Come qualsiasi cerimoniale, il morire è ipnotico e produce assuefazione. Considera domani, per esempio. La visita degli infermieri è fissata in agenda, diciamo alle sette e trenta del mattino. Alle dodici è previsto l’ingresso del nuovo paziente. Qualcuno staccherà il respiratore, qualcun altro mi darà dei moduli da firmare. Cambieranno le lenzuola, faranno arieggiare la stanza per un certo numero di ore. Esistono manuali con procedure specifiche; queste procedure ci difendono dall’assurdo mentre lo perpetuano. È per questo che ogni notte vengo qui e ti parlo. Forse non è più nemmeno la speranza di svegliarti: è il terrore di addormentarmi.

Man mano che i boscaioli procedevano, il prato spariva sotto una volta di rami sorretti da file di aghi speculari. Il ragazzo con l’orecchino d’oro li ripuliva uno a uno e li caricava sul furgone. Si fermava solo ogni tanto, per osservare da lontano i movimenti del compagno. Ho un tiglio, lo sentii dire a un certo punto, che ha la mia età. Presto dovrò farlo anche io, perciò…

Il mio urlo che rompe l’aria.

Voi due! Smettetela subito.

Il mio urlo che rompe l’aria e spazza le nuvole, il fascio di luce che mi inquadra: sono l’eroe di questa storia. Scavalco il balcone e sto già volando, sotto la suola della mia scarpa da gigante il quartiere è una pozzanghera in technicolor, un posto da incubo che cancello con un salto. E mentre scendo in picchiata su di loro, i boscaioli scappano coi piedi in testa e una maschera di denti al posto della faccia. Nella fuga il ragazzo con la camicia a quadri perde la motosega, che schizza nelle mie mani: la impugno e diventa d’oro. Divento d’oro anch’io. La faccio ruggire una volta sola (ed ecco che le stelle alle mie spalle formano la sagoma scintillante di un giaguaro), poi procedo con metodo. Inizio coi boscaioli, ma non risparmio nessuno. Anche tu partecipi: la tua fionda lancia sassi che sono nidi, nidi di vespe meccaniche che conficcano il pungiglione centinaia di migliaia di volte, senza rompersi mai. (Ovviamente hai il tuo totem: è un’aquila, con grandi ali che spuntano dalle tue orecchie.) Quando finisco, contemplo la mia opera: le aorte zampillano nelle piscine, dove galleggiano leggerissimi denti da latte e pupille di color azzurro che oscillano al lieve fruscio delle budella appese ai rami più alti dell’acero giapponese, che è diventato un bonsai. E in mezzo alla devastazione l’albero cresce, cresce fino al cielo poi si inchina verso la casa pesce, diventa una cattedrale orizzontale, uno scintillante tunnel di resina che porta dritto dritto al nostro balcone. Allora io allungo la mano alla ragazza della finestra di fronte. Vieni con noi, le dico, non soffrirai mai più.
Ci sono fantasie che modificano la materia. Chissà che cosa sarebbe successo se quella domenica di diciassette anni fa avessi davvero provato a fermarli. Ogni tanto ci penso, sai? Chi perdeva infilava la mano nell’acqua verde… Sull’altra faccia della moneta, dietro all’albero ossidato, è incisa la testa di un uomo. L’immagine si è conservata alla perfezione, come se l’acqua l’avesse solo sfiorata, come se da quel lato la moneta avesse galleggiato, invece di sparire sul fondo. Testa o croce? Tu hai puntato tutto, e hai perso. Ma io non ho vinto. Non preoccuparti, questa volta non succederà. Mi senti? Non permetterò che lo facciano loro.

La parte più difficile è il tronco.

Ti prego…

Occorre praticare due tagli: il primo scava nel fusto un angolo di quarantacinque gradi; il secondo, dalla parte opposta, procede perpendicolarmente. La lama sbriciola la corteccia, che è cosa morta ma densamente abitata, penetra nel libro, prima cosa viva, facile alla corruzione, poi avanza attraverso il cambio e arriva all’alburno, cerchio d’acqua e di zucchero che strato dopo strato degraderà in durame, pietra filosofale dei falegnami, e ancora giù fino al midollo: unità ferma, satura d’informazione, intorno alla quale, anello dopo anello, sei cresciuto anche tu. La vita è questa danza intorno al centro. Vivere è ricordare, ricordare è paradossale: i ricordi profondi sono i più irrorati, quelli più recenti sono già morti. Nell’economia dei viventi la morte protegge la vita. La vita dopo la morte non è un fatto temporale, ma un luogo nello spazio. Ciò che è vivo al di là di ciò che è morto. Ciò che di noi rimane quando il resto cade.
Quando finirono, sparsi un po’ ovunque sul prato c’erano ceppi e piccoli tronchi, che il ragazzo con l’orecchino d’oro cominciò ad accatastare ordinatamente contro la recinzione divisoria. Il barboncino ne seguiva i movimenti con apprensione. Riusciamo a sistemarli uno sopra l’altro?, chiese la signora. Il ragazzo con l’orecchino si girò verso il suo compagno. È per occupare meno spazio, disse lei. Quella signora piccola e curva l’ho vista tante volte, a ogni latitudine. A ogni latitudine il compito ingrato di difendere i vivi dai morti che piangono.
Rimasta sola, la ragazza si alzò e si guardò intorno: a parte un merlo che saltellava allarmato qua e là, non vide nessuno. Certamente non vide me, che dal balcone della palazzina luccicante la spiavo ancora. Si avvicinò alla base del tronco, si piegò sulle gambe. Allungò la mano. Accarezzò le venature. Poi cominciò a contare.

Uno, due…

Quando ti abbiamo portato al maneggio, il giorno del tuo compleanno. In quella foto (l’unica che si è salvata dall’incendio, a quanto ne so), papà è in primo piano. Tiene le briglie del pony che stai cavalcando, e come sempre indossa una giacca elegante e fuori contesto. Il pony si chiamava Scheggia, te lo ricordi? Era talmente lento che a un certo punto papà si era sfilato la cintura e aveva cominciato a frustarlo per farlo avanzare. Del viaggio di ritorno ricordo il silenzio, il profilo viola delle montagne.

Tre, quattro… cinque…

Quando smontavano le giostre di piazza Soraia, alla fine di agosto, e tu insistevi a rimanere fino a che l’ultima torre del castello gonfiabile si riduceva a una macchia rossa sull’asfalto. Poi mi davi la mano e ti facevi portare a casa senza dire niente.

Sei, sette…

Le spedizioni alle case abbandonate di via Nixo, prima che venissero ad abitarci gli albanesi.

Otto… nove…

Quando ti sei preso i pidocchi e nostra madre ti ha rasato a zero e tu ti sei messo a piangere perché le avevi chiesto di conservarti una ciocca di capelli in una busta di plastica, e invece lei aveva bruciato tutto. Ti ricordi? Volevi allevare una colonia di parassiti e liberarla nella piscina dei vicini. Mi sembra di vederti: il pettine in mano e la testa scintillante al sole di novembre, il mucchio di riccioli neri che si ritorce nel posacenere d’argilla. Un monaco sconfitto.

Dieci.

Quanto vorrei averti seguito alla Buca l’altra sera. Forse non sarebbe cambiato niente, ma mentre il liquor defluiva pacificamente dalla tua narice sinistra e il Lucertola componeva per errore il numero della polizia, io ti avrei distratto con una delle mie domande. Una stomatopada e una tarantola si incontrano, chi vince? E tra la tarantola e la vespa falco? In quanti secondi uccide la cubomedusa? Che cosa succede al tuo corpo se mangi un intero cucchiaio di cannella? E la tua preferita: Dove va a finire la polvere dopo che la spazziamo via? A questa avresti risposto anche con il cervello confuso con l’asfalto.

Undici, dodici… quindici…

Non te l’ho mai detto, ma un giorno l’ho seguita fino al lavoro. Era dall’altra parte della città, bisognava cambiare tre o quattro autobus. C’era una panchina dall’altro lato della strada, con un furgone bianco parcheggiato davanti. All’interno dell’edificio le luci sono rimaste sempre accese. Lei è uscita per ultima. Quando l’ho vista passare dalla porta girevole, nella mia testa girava a ripetizione la frase del libro dietro cui avevo nascosto la faccia per tutte quelle ore. Nonostante sia frequente che la relazione tra ospite e parassita evolva in una relazione di tipo mutualistico, con il beneficio di entrambi gli organismi coinvolti, l’economia dello scambio rimane comunque segnata dallo sfruttamento reciproco e non, come si potrebbe pensare in prima istanza, da uno sforzo di collaborazione. Le parole giravano nella mia testa, e lei non usciva mai.

Ventidue, ventitré… ventisei…

Aveva due nei sulla pancia alla stessa altezza, perfettamente simmetrici. Quando rideva sembrava più triste.

Ventisette… ventotto…

Quel pomeriggio, quando mi hai fatto quella telefonata anonima e io ti ho chiesto se avevi bisogno di soldi e mentre mi raccontavi dell’apprendistato nell’officina di Lukas hai sentito una voce familiare, una voce familiare e poi il telefono staccato. Quel giorno non ero ad Amburgo. Mi senti? Ti ho mentito.

Ventinove, trenta…

Se avessi saputo che conservavi tutti i miei bigliettini di auguri, persino gli ultimi, quelli prestampati inclusi nella spedizione rapida.

Trentuno…

Se avessi saputo che in rubrica mi tenevi ancora memorizzato con quel soprannome stupido… Anche la mappa della Città Ideale era ancora lì, nascosta dietro la griglia di aerazione sotto la finestra di camera nostra.

Trentadue…

Se solo avessi saputo portarti via da tutto questo.

Trentatré.

Quel giorno la ragazza contò gli anelli una, due volte. Sembrava quasi che non ci credesse. Quando ebbe finito abbandonò la testa sul tronco, e pianse. Non ero abbastanza vicino da poterli contare anch’io, ma credo proprio che avessimo ragione: la ragazza e quell’albero erano cresciuti insieme.
Non so dirti quanto tempo passò. Ricordo che a un certo punto, nel silenzio che segue l’irrimediabile, vidi passare il vecchio con il barboncino. Indossava un paio di bermuda color cachi e fischiettava un motivetto. Ricordo che uno dopo l’altro tornarono gli aspirapolvere, gli allarmi delle portiere, i tonfi e i canti delle imprese edili, la radio e la pubblicità. Ricordo che tu eri già tornato dentro, eccitato dalla furia di nostra madre. Alla fine la ragazza sollevò la testa e si fece forza, poggiando la mano sul tronco con tutto il suo peso. Lì sotto le radici erano ancora avvinghiate alle tubature dell’acqua; presto le avrebbero avvelenate. Quel giorno, però, la resina brillava ancora sul disco chiaro.

1 Reply to “Vita vegetale“

  1. Grande Ale! Youhuuuu!
    Quando io muoio le cellule del mio corpo sono ognuna per sé o sopravvivono gruppi separati di cooperazione?

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