Le cose di tuo padre

«È rotto».
«Anche a me pare rotto».
«Non è rotto».
«E allora perché resta fermo?»
«Perché ha la carica automatica».
«E che vuol dire la carica automatica?»
«Che non si muove finché non lo scuoti forte».
«Secondo me è rotto».
«E statti zitto, e falla scuotere!»

Rosarina posa la cassa sul polso, la sente fresca contro la pelle. Fa scorrere il cinturino nella fibbia, aggancia il cinturino all’ardiglione. Dà un colpo forte, poi allunga il braccio verso i compagni, disposti in cerchio attorno a lei, le teste che quasi si toccano. Il rotore oscilla sul suo asse, le lancette ripartono – «Miii, sole sole!» –; l’orologio, da muto che era, si mette a ticchettare. La meraviglia cambia le voci in grida, le grida si accavallano finché non parla Cece.

«Eh beh? Che fa se ha la carica automatica?»
«Fa che vale più soldi, molti di più».
«Dieci euro!»
«Di più».
«Dollari!»
«Bum!»
«Cento dollari?»
«Seh! Duecentomila».
«Non vale un tubo».
«Non lo devo dimostrare a te, quanto vale…»

Cece si pianta davanti a Rosarina; non se n’è mai importato del suo soprannome: pure se a stento la chioma schiarita dal sole arriva a toccare il mento della bambina, lo stesso la sfida con tutto il corpo.

«Non vale un soldo. È una patacca. Sennò tua madre figurati se te lo dava».
«L’ho preso di nascosto».
«Allora sei una ladra».

L’aria dei ventilatori spinge fuori dalle case le tende a grosse bande verticali, sporche di sabbia, scolorite, verso il battuto dei marciapiedi. È pomeriggio presto, nella cagnola gli adulti dormono sopra lenzuoli sudati. Il sole arroventa le basole e si ripete, senza stancarsi, sempre uguale a sé stesso, in mille piccole pozzanghere saponate: era il turno dell’acqua: Tonio, il fratello di Cece, ha lavato la macchina di nuovo.

«Ladra».
«Non ti permettere».
«Bugiarda».
«Non sono bugiarda».
«Allora ladra sì?».
«Nemmeno ladra».
«E dove l’hai preso?»
«Me l’ha dato mio padre prima di partire».
«Bugiarda».
«Stai zitto».
«Bugiarda e ladra. La-dra!»

Cece sembra in vantaggio, per ora. Rosarina guarda in terra per non guardarlo in faccia; tutti i bambini lo seguono piano nella litania.

«La-dra! La-dra!»
«Maria!»

La banda all’unisono ammutolisce, trattenendo il più minimo fiato.
Il padre di Maria si rigira nel letto tossendo, le molle cigolano. Gli scappa di imprecare in cielo, a dio, e a tutti quanti, a Maria le tocca prendersi pure della bastarda, manco fosse figlia a un altro. Oltre la tenda di garza che chiude la porta del basso compare la moglie del padre di Maria, in una camicia da notte guastata dalle macchie di candeggina.

«Piccidduzzi, jocate a parte di mare, forza», dice la donna col suo strano accento, di una delle montagne. «Facitelo dòrmiri a tuo padre, Marì. Ha travagliato di notte. Facite i bravi e facitelo dòrmiri».

Maria rimescola tra i denti un vafangulocoglionabuttana, e la testa della donna viene di scatto in fuori – i lunghi capelli striati di rosso, secchiti come la stoppa dei rubinetti. L’insulto se lo deve mezzo rimangiare: Mirela disartiglia la tenda del basso e, col corpo rigido e proteso, minaccia di darle due sberle.
La bambina affretta il passo.

«Vedi che ti ha sentito, Marì…»
«Che me ne fotte, mica è mia madre».

Gli altri si allontanano, camminano meno svelti, raso ai muri, cercano ombra. Cece prova a riprendere stancamente la cantilena contro Rosarina, ma hanno la testa altrove. La banda si ricompatta sulle scale dell’ex convento delle Carmelitane, riconvertito in polo museale, e quindi chiuso. L’aria ha quell’odore che hanno i golfi vicino ai porticcioli, di alghe, catrame e torrefazione. Lenti come il mese di maggio, arrivano anche gli ultimi – Maria, Giuseppe e, con molto distacco, Rosarina, che ha l’aria di chi vorrebbe essere al di là del mare. Anche se Cece fa ogni sforzo per riportare su di sé l’attenzione, gli occhi di tutti cercano spontaneamente al suo polso quell’oggetto prezioso, magico. La bambina torna tesa come un filo per i panni, socchiude gli occhi, cerca con cura le parole.
Cade un silenzio che pare la polvere dei tappeti sbattuti sulle teste di ognuno, e come viene se ne va; basta un soffio di vento, una piccola distrazione, per disintegrarlo. Il sole filtra negli spazi sottili tra i palazzi, illuminando i pulviscoli. Anche i pensieri e le immagini si formano vorticando dentro alle teste pidocchiose, al suono delle bugie di Rosarina. Piccoli corpi nel vuoto in eterno combattimento che avanzano, cambiano strada, ritornano indietro e, usciti dal cono di luce, non si sa che fine fanno, se servono, se sono mai esistiti. Gli occhi dei piccoli pure vagano, come i pensieri, per guardare altrove. Non sopportano di sostare troppo a lungo sul disegno del quadrante: è troppo bello il lavoro di madreperla e lacciaio è splendido, troppo brillante il vetro. E poi tutti quei numeri, lavorati di cesello: il disegno l’ha ideato in persona il re della Cina e lo ha regalato al padre, dice Rosarina, mentre lo mostra ancora una volta, a giro. È un oggetto a tal punto meraviglioso che ne hanno paura, la loro stessa meraviglia gli fa paura, e così si distraggono. Giuseppe si alza e fa uno scatto di corsa, Maria fa finta di sbadigliare, poi torna a fissare gli occhi su quei quattro centimetri per lato di eccezionale precisione; Teresa, fa una palla di carte di caramella che ha ritrovato in tasca, e con un calcio la perde. Anche tra loro il silenzio mai si posa, basta un istante, il calore dei corpi, per ripartire.

Rosarina accarezza con la punta il quadrante con tanta leggerezza da non lasciare neppure un minimo alone, anche se ha le dita luride e le unghie rifilate di nero. Si sofferma sulla minuscola luna in rilievo, perché quando è partito era notte. Racconta di aver ascoltato, nel dormiveglia, i suoi genitori che parlavano in cucina, alla luce della cappa e dei bagliori, fuori.

«E che si dicevano, che si dicevano?»

Oh, Rosarina era troppo assonnata per capire tutto. Ha sentito gli scarponi di suo padre avvicinarsi, dopo che le urla si erano placate. Ha cercato di tenere le pupille sotto le palpebre più immobili che poteva. Se avesse visto che era sveglia, non si sarebbe avvicinato. Poi se n’è andato. Gli altri reclamano – «andato dove?» –, come se fossero a carica automatica pure loro. Cece solo non parla. Si annota in testa i nomi di quelli che si mostrano più curiosi, per fargliela pagare con calma. Per il momento, si finge solo assorto dal racconto di quest’ultima arrivata che già gli ruba la scena. Sulle scale i bambini fingono di non accorgersi di molte cose. Dov’è andato, Rosarina? È partito per mare e, poiché ai bassi nessuno l’ha ancora mai visto, dev’essere vero.

«Te l’ha lasciato lui prima di andare?», domanda Maria, la bocca aperta che quasi ci entrano le mosche culaie; Cece prende nota.
A Rosarina le scappa subito da rispondere di sì.

Una volta partite le prime, le altre bugie scorrono fuori dalla bocca sempre più piene, come ciliegie.
È capitano di una baleniera che dà la caccia ai mostri delle Fosse, al largo dell’Oceano Indiano, racconta Rosarina, gonfiando il petto come un’upupa di notte. Mostri con braccia piene di tentacoli, gli occhi di fuori e senza bianco, ognuno quanto la testa di un uomo grande, e le zanne alte più di un metro. Disturbano la pesca delle navi che arrivano qui a prendere platesse, tunnìne e gamberi da tutto il mondo, per friggerli ai turisti; per questo il lavoro del padre è festeggiato a ogni porto in cui rientra. Tante volte che vorrebbe tornare, ma quelli lo obbligano a fermarsi per una notte ancora, e mentre le chitarre vanno in suo onore fino al fragore dell’alba, lui di sicuro prenderebbe l’armonica a bocca, suonando le musiche che ha composto, in onore di Rosarina quando è nata, e suonerebbe forte, perché le musiche arrivino fino a lei. All’alba, qualche volta, il vento le porta…
Cece fa un suono lungo e sottile: all’inizio non si capisce se viene dal suo naso – sembra imitare l’armonica –, ma poi gli scappa da ridere, e tutti appresso.

«Bugiarda sei. Ladra, bugiarda e cacciaballe», e il vortice nelle teste di ognuno si blocca fermo di colpo.

D’altra parte si sa che, qui ai bassi, gli unici mostri da cui guardarsi sono i bavosi di merda, che ronzano attorno a quelli che giocano. Una volta per poco Tonio non si rovinava, e nemmeno aveva fatto vent’anni: un bavoso s’era accostato a Cece mentre si allacciava le scarpe, allora Cece era piccolo la metà di ora. Gliel’avevano tolto dalle mani più morto che vivo; non era morto solo perché dicevano che forse era un mezzo parente di don Ferraro, quel vecchio, e Tonio s’era fermato in tempo.
Certo che da allora lì attorno ai bassi della Cala non si era più visto.
«Manco fossi un rincoglionito di quattr’anni», aveva gridato in faccia Tonio al fratello, strattonandogli le orecchie che a momenti gliele staccava. Cece si fissava le scarpe ancora slacciate, rosso in viso per la vergogna, perché tutti i bambini dei bassi avevano assistito alla scena – era l’altr’anno, quando ancora era piccolo, e non si poteva dire che avesse conquistato il suo predominio – e per i due schiaffoni che Tonio gli aveva mollato, come se venire adescato fosse colpa sua.
Tutti qui sanno, così nessuno più bada alle storie di Rosarina, mentre ricama ancora una mezza trama sul padre che arpiona senza macchia un mostro di trenta metri. Lo stesso, però, Giuseppe tira di tasca un foglio di carta velina e comincia a suonarlo come fosse un’armonica. Ferma sui gradini ad ascoltare Giuseppe che suona mentre gli altri intorno urlano e battono le mani, Rosarina così si consola; segno che la sua favola, per un attimo, è stata creduta.

«Grazie, grazie. Ora vi suono un pezzo che si chiama La spuma del mare», e tutti socchiudono gli occhi, e qualche testa ondeggia.
Poi la velina si rompe, Giuseppe fa un pìrito, tutti i bambini iniziano a scappare.
«Che puzza! Caca-mutànni! Caca-mutànni!»
Giuseppe ride, muove il sedere intorno come una minaccia: «Sono il mostro dell’Oceano Indiano, scappate!», e ride pure Cece.

Teresa volta la testa di lato, per piangere tranquilla, senza farsi accorgere; Cece lo vede lo stesso che sta piangendo, si mette una mano in tasca e le stringe a pugno tutte e due. Destra o sinistra? La piccola non gli dà conto, Cece butta la caramella in terra, e Maria gli tira un pugno piano sul braccio.

«Non me la potevi dare a me, se lei non la voleva?»
«Tu zitta, cretina», e le rende il pugno ma più forte.

Anche Maria comincia a piangere.

«Non mi accorgo di avere più forza, perché sono più maschio».
«Tu sei solo più merda e cretino, questo sei…»

Cece non replica, guarda verso il terrapieno dell’Ucciardone. Maria non ha finito di massaggiarsi il braccio che già è da un’altra parte.

«Andiamo a gridare suca ai carcerati», Teresa per prima si alza e parte appresso a lui.

Quando il Tiffany rientra i tavolini, i bambini attendono che Pina finisca i mucchietti, pensando di raccoglierli dopo con la scopa e la paletta; glieli sparpagliano tutti, e scappano via mentre lei grida maledizioni. L’aria è ferma, i capelli attaccati alla fronte dalla corsa sanno di sudore. Sono sfiniti dal caldo e dalle storie, come le ciliegie lasciano la bocca aspra, dopo un poco.

«Io me ne vado».
«Anch’io».

Rosarina si separa per ultima da Maria, che sta nel suo stesso vicolo. Senza perderci troppe smancerie, solo un cenno del capo. Le fa simpatia, ma non sono ancora così amiche da dividere il pane o cose del genere. I primi giorni tirava dritto fino all’inizio della salita, e poi tornava indietro: ora si è imparata che il portone giusto è il terzultimo, dal lato destro. Corre a guardare la cassetta delle lettere, dove qualcuno ha già rotto il vetro. Quando se n’è accorta, sua madre ha gridato come se avesse visto i diavoli, per la frustrazione: «La cassetta nuova, ventiquattro euro e novantanove!», ma la madre di Rosarina è solo amareggiata perché, levato il réclame del Famila, non si riempie mai di niente e non serve a niente.
Rosarina entra nel vestibolo, con una mano si sfila una scarpa e con l’altra fa mulinelli in aria giocando a non perdere l’equilibrio.

«Sarina, tu sei?», grida sua madre nel vederla comparire e, come ogni sera, l’ultima sillaba si abbassa di volume, insieme alle rughe degli angoli e alle labbra, scavate dalla delusione. «Vatti a lavare le mani che è pronto. Tuo fratello già ha finito la pastina e tu ancora in giro a quest’ora, vergogna».

Rosarina va subito ad accendere il televisore.
Per ripicca non se le lava le mani, manco ci entra in quel bagno marcito: in questa casa non ha mai voluto venirci, visto che suo padre, se tornasse, non saprebbe dov’è. Invece tira dritto per la camera da letto dove dorme sua madre con Tommaso nel lettino. Apre il cassettone di sopra, piano piano, anche se le fanfare del tg già coprono il rumore come previsto. Si toglie di tasca l’orologio e lo ripone sotto al lenzuolo del corredo, dove lo ha trovato. Resta in ascolto un istante, dopo che lo ha chiuso per distrazione sbattendolo troppo forte; così trattiene il fiato, aspetta di vedere che succede. Passa un motore dietro la finestra, poi torna silenzio. Dal cassettone viene un sottile ticchettio, e la bambina si domanda quanto durerà, quando si spegnerà, come fare a non essere scoperta. Sua madre si arrabbierebbe, non si accontenterebbe di schiaffeggiarla e basta; le tirerebbe i capelli, le staccherebbe ancora la testa della bambola, gridando come ha fatto l’ultima volta finché il grido non le si seccherebbe nella gola se finalmente Rosarina è contenta, se ora è contenta così, gettando via dalla bocca come uno sputo la testa staccata della bambola, se ora è contenta e se così s’immagina cosa si prova quando mettono le mani nelle tue cose, e che non deve toccare mai più le cose di suo padre, le cose di suo padre, e chiederebbe dieci volte se si è spiegata.

«Si è raffreddato», urla sua madre dal tinello; Rosarina decide che tanto la madre coprirà il rumore dell’orologio coi singhiozzi, se tutto va come ogni sera.

Prima che si mettono a mangiare, e mentre gli occhi del piccolo cascano di sonno, la madre di Rosarina le blocca la mano che voleva prendere la forchetta.

«Padre nostro che sei nei cieli, fai finta che ci ricordiamo giuste le parole, proteggi i membri di questa famiglia vicini e lontani, i nostri vivi, i morti, rimetti a noi i nostri debiti e fa’ che un giorno possiamo anche noi avere molti, moltissimi debitori, se la fortuna gira, così ce li ritornano, ma più di ogni altra cosa, liberaci dal mare che fa annegare, e così sia».
«Posso mangiare ora?»
«Prima baciamo la foto di tuo padre».

Quando torna fermo sopra al frigorifero, al centro esatto del centrino ingiallito all’uncinetto, il padre guarda Rosarina e le fa così con l’occhiolino, come a dirle che sta venendo su proprio brava e giudiziosa, e di aspettarla, che torna, anche se la casa è diversa, la casa la trova.
Una puzza nuova si alza nella stanza. La madre allora si china ad annusare suo fratello, che va cambiato. Rosarina ha il permesso di attaccare la pastasciutta in bianco da sola, ma prima però si alza a spegnere il televisore.

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