bagno a mare

Pietro rallenta e si ferma davanti all’ingresso dello stabilimento. Il finestrino del passeggero inquadra il mare, che oggi è mosso, la bandiera rossa al vento e il bagnino sulla torretta con gli occhi al largo. Ci ha fatto scendere, prima di fare inversione e parcheggiare sotto i pini, dall’altro lato della strada.

All’inizio è rimasto in macchina. Pensavo ci sarebbe rimasto per tutto il tempo.

Mia madre cammina avanti, Eufemia mi afferra per un braccio e mi tira giù per la scesa, ma per un bel pezzo riesco a voltarmi e a guardare indietro. Lo vedo azionare l’accendisigari, allentare il nodo della cravatta e prendere tempo. Allo scatto, avvicina l’incandescenza alla punta della sigaretta e tira forte. Anche laggiù arriva odore di tabacco, quando crepita e s’incendia, e un soffio di fumo acre mi lecca la faccia. Poi Pietro smonta dalla macchina e finisce di fumare appoggiato alla carrozzeria, gli occhiali da sole scuri calati, la portiera aperta.

Siamo arrivati al bagno da meno di mezz’ora e la mamma si è già rifugiata all’ombra, tra l’azzurrobianco delle onde che si rincorrono da una cabina all’altra, l’ombrellone a righe avorio e blu, la seggiola con l’anima nera e i fili arancioni intrecciati. Eufemia intanto ha tirato fuori l’olio, se ne è versato un po’ sulle mani, se lo è spalmato per bene sulle braccia, sulle gambe e pure in faccia. Mamma non se ne è accorta, lontana e intabarrata com’è nel coprisole di lino, la tesa del cappello calata fin sopra gli occhi. Il vento si porta dietro l’odore dell’estate, di abbronzanti, ciambelle, tranci di pizza e gomme da masticare colorate. Galleggiano in una bolla di vetro, ma bastano cinquanta lire e un giro di chiave e ne arriva una azzurra, ma ce ne sono pure di arancioni e gialle. Con quella rossa mi ci tingo le labbra, come fa Eufemia con il rossetto, e pure la mamma.

Eufemia con mia madre e in società è rispettosa: sa apparecchiare la tavola, disporre bicchieri, posate e salviette e scegliere i vestiti da abbinare all’ora della giornata, conosce i vini e i fiori adatti al centrotavola. Con me invece è perfida, mi sta sempre addosso, non me ne manda una liscia.

Neanche faccio due passi verso la riva che subito mi richiama: «È pericoloso. Esci!» urla con le mani a mo’ di megafono, anche se non ho ancora sfiorato l’acqua. Poi si zittisce quando realizza che lì, a uno sputo, c’è la mamma assopita, e prova vergogna. Continua solo ad agitare la mano, ora stringe il suo foulard preferito, quello con i gladioli. Gualcito com’è, da qua sembrano appassiti, gli steli piegati per il vento che tira.

Saranno da poco passate le tre del pomeriggio quando Eufemia dice: «Facciamo una partita?» e si alza pigra dalla poltrona e si stiracchia. Si muove allo stesso modo di un predatore. Un ocellotto, mi viene da pensare per il manto del colore uniforme che ha preso dopo solo due giorni di permanenza. Eufemia è già alla portafinestra, scende il gradino, esce, e spedita raggiunge il ping-pong, racchette e palline a testa in giù sulla tavola verde. C’è l’ombra cremisi della bouganville e il cielo coperto a mitigare l’afa dell’ora. Ha un modo curioso di impugnare la racchetta, ha la battuta precisa, pochi i rimbalzi di troppo, fa un gioco metodico e misurato che mi snerva dopo le prima battute. Per questo, alla mamma, quando si fa largo tra le tende, si affaccia e mi chiede con chi sto parlando, rispondo: «Niente».

In spiaggia tira fuori le parole crociate, sposta la sdraio sotto l’ombrellone, le gambe al sole e, se la mamma è distante, a passeggiare sulla riva, al bar o al fresco della cabina, comincia: «8 verticale – Altro nome del gichero, tre lettere». E poi «18 orizzontale – Il citizen di Quarto Potere, quattro lettere», e avanti così. Oppure mi chiede di ricordarmi a quale numero corrisponda la tale lettera, se si decide per le crittografate. Ha preso il brutto vizio di non appuntare più lettere e numeri lungo la cornice. «Vado a memoria» dice, e si sbaglia.

Eufemia è una persona pigra, soprattutto al mattino, appena alzata. Ci prova a mostrare un’altra faccia, quella della puntualità e dell’ordine, ma io la conosco. Per fortuna la mamma è distratta e non se ne accorge. Entra in cucina, pronta per accompagnarmi a scuola, ma la camicia da notte o l’orlo del pigiama sbucano da sotto il cappotto. Parecchie volte tiene il cappuccio calcato bene in testa, perché nei capelli ha ancora i becchetti della sera prima. Io rido e mia madre chiede: «Cosa ridi?» e io dico: «Così», perché voglio evitare che Eufemia si becchi una strigliata. Al pomeriggio, all’ora del tè, si avventa sui pasticcini. Quando le amiche della mamma vengono a trovarci per il Machiavelli o la Scala Quaranta, la casa si gonfia di lacca e capelli cotonati. Sono accorte, gentili, non dimenticano mai di portare in omaggio scatole di cioccolatini, lacrime di zucchero, cofanetti di caramelle e altre leccornie a peso della Torrefazione. Eufemia saluta, è gentile con tutte le signore, e intanto come può si riempie le tasche con quello che le capita a tiro. Poi sale in camera mia e le svuota sul letto, gli incarti traslucidi delle Rossana rilucono in mezzo ai fiori della trapunta, al bianco e blu delle galatine, al verde pallido delle fondenti.

In spiaggia, appena mia madre si apparta all’ombra, Eufemia si butta in acqua e nuota fino a dove ha fiato. Delle volte, quando l’acqua le arriva a mezzo busto, mi chiama, ma io declino sempre, so che alla mamma non farebbe piacere. Una volta guardo dal buco della serratura e la scopro nella cabina con l’autista. Sono seduti a un tavolino da campeggio, di quelli pieghevoli. «Alza» dice Pietro e le avvicina un mazzo di carte napoletane.

Per Eufemia non c’è spazio per i pensieri, è pura azione. «Facciamo una corsa?» dice. Oppure in giornate come questa, mia madre distante, «Saltiamo i cavalloni». Io dico sempre no, perché tanto lo so che mi fa arrivare fino a laggiù e lei è già fuori, sta seduta sul bagnasciuga con la cuffia rosa sulle ginocchia e un paio di mollette tra le dita, i denti salmastri all’aria. Se mi chiede di fare una partita a carte, immancabile arriva la noia alla mia prima presa e ogni volta mi ritrovo a fare l’odioso solitario dei dieci. Lo stesso al gioco della dama e pure a scacchi. Muove il pedone e già ha la testa altrove, al volano, all’uncinetto, alla carta, all’ago, alle forbici.

Eufemia frequenta il Circolo tennis e il bar in piazza, conosce tutti per nome e cognome. Se chiedi di lei in giro, non se la ricorda più nessuno. Mia madre meno che mai. Sua sorella era uno di quegli argomenti che era meglio non toccare, non faceva altro che rovinare il buon nome della famiglia. Eufemia era la sorella scema. Non c’erano voluti tanti anni per capire che aveva le rotelle scombinate, smidollata al punto che si erano visti costretti a rinchiuderla in un istituto.

Capitava di rado e solo d’estate, un paio di giorni erano anche troppi. La mamma accostava la porta della sala, così poteva alzare la voce al telefono e inventare una scusa per farla rientrare subito.

Alle spalle dello stabilimento c’è uno spiazzo erboso con lo scivolo e le altalene. «Facciamo a chi vola più alto» dice, ma io alzo la terra con i piedi, faccio un salto e scendo. Non mi piace per niente stare lì sopra a dondolare forte, una specie di sottovuoto quello che ti prende, le catene che cigolano e i pali che iniziano a fremere forte.

Detto questo, si contavano sulla punta delle dita le volte che avevo incontrato Eufemia. Dopo quell’estate non se ne era saputo più nulla, dicevano che era affogata, che la colpa era nostra. Prima di finire sugli scogli, gira voce che galleggiasse lungo costa, ma io di questo non ho ricordo. Ho provato a chiedere a Pietro, ma lui è rimasto con la bocca incollata, l’ha aperta solo per accendersi un’altra sigaretta.

Quando Eufemia mi vuole spaventare, si spinge all’acqua alta. Arriva a nuoto fino all’isola e, una volta lì, inizia a fare versi con la bocca e salta, agita le braccia e le mani per farsi vedere, per farmi capire che è in salvo. Allora io tiro fuori la ciambella dalla busta bianca, faccio scivolare in bocca tutto lo zucchero depositato sul fondo del sacchetto, ci soffio dentro, lo faccio gonfiare e lo scoppio con tutte e due le mani e spargo lo zucchero rimasto sulla spugna. «Cosa fai, Claudia?» riemerge mia madre, di ritorno da chissà dove. Fingo di non sentirla, tiro fuori il giornaletto, mi sposto all’ombra e torno a leggere.

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