Quando?

Ho sempre mal di testa. Un mal di testa straziante, una specie di urlo che non mi permette di pensare.

Nei rari momenti in cui mi lascia mi trovo ansiosa a cercare di recuperare il contatto con il corpo, le mani e il mio quaderno. La penna si inceppa per la rabbia che metto nelle parole. E, come sempre, mi sembra di non avere tempo.

Ho imparato a gestire la sirena che sento in testa. Esco fuori. Solo pochi passi. Dondolo sulle gambe come se mi cullassi, sposto il peso dalla destra alla sinistra, lentamente, mi bendo gli occhi, rilasso il capo e il male è meno intenso. Diventa un canto che mi accompagna e vedo oltre gli occhi le immagini di qualcosa che non era nella memoria. A volte il corpo si chiude in quel dondolio, e devo picchiare le ginocchia per farle piegare e permettermi di andare a sedermi a scrivere di quello che ho visto.

Adesso riesco a sentire la mia voce. Avevo quasi dimenticato di averne una. Dice chiaramente:
«Non ho paura di morire, so che verranno a prendermi. Ho paura di dimenticare.»
Ecco, scrivere mi serve a questo. A non dimenticare. E niente esiste se non posso ricordarlo.
Questo tempo sarà un tempo solo se ne scriverò. Ho sempre preso nota di tutto. Anche se ero in compagnia, anche se altri testimoni avrebbero potuto ricordare con me. Non mi è mai bastato. Con tutte quelle note ho scritto diari di viaggio, resoconti di malattie, ricettari e liste della spesa, raccomandazioni dello psicologo, citazioni da libri, la morte di mia madre, password e nomi utenti, programmi di ginnastica quotidiana, istruzioni per il cane e frasi d’amore. Ma adesso che sono in questo spazio vuoto, senza nessuno, cosa c’è da ricordare?

Esco ancora. Riprovo a dondolare con la benda sugli occhi. Mi godo le visioni stravolte del mondo da cui sono assente da pochi giorni ma che mi sembra già lontanissimo. Vedo la fine di tutte le storie che conosco. Vedo conclusioni diverse delle storie che sono già state raccontate e anche altre che sono da raccontare.
Forse Amleto non è morto, Ulisse non è mai tornato a casa, e Godot è arrivato.
Mi prende un languore che nemmeno il rumore acuto che ho in testa riesce a fermare. Una specie di pena per me stessa. Io non vivo, sono in attesa di quando racconterò. Spio i dettagli inconsueti che il mio corpo registra per poi poterne scrivere o raccontare a qualcuno. Ma quando? Verranno a prendermi, ma quando? Questa è la tortura della solitudine, sentirmi inutile se non rivelo qualcosa.

Le giornate passano. In qualche modo cerco di arrivare a sera. Ho perso il conto. Scrivo e dondolo. Non avere coscienza di che giorno è mi toglie stabilità. L’ospizio, ecco cosa mi ricorda. La prima domanda che il gerontologo faceva periodicamente a mio nonno:
«Che giorno è oggi?»
Se non rispondeva:
«Che ore sono? Hai pranzato o hai cenato?»
Alla minima esitazione la diagnosi, demenza senile. Farmaci. Vedevo il nonno spiare disperatamente sul giornale del dottore per capire la data. I farmaci non li voleva.
Mi sento così, non so la data, datemi dei farmaci. Io ne voglio. Un dignitoso sonno fino al rientro. Perché io qui non sono niente. Costretta in un luogo, senza riuscire a scrivere come vorrei.
Che cosa mi aspettavo? Che il tempo giocasse dalla mia parte. Invece sento solo un gran mal di testa. E sì, la mia voce, che sto imparando a odiare.

Pensavo di essere più ricca, di avere dentro una sorgente di risorse. Sono vuota e stupida. Come da bambina. Mi chiedevano cosa pensavo. Il mio mutismo destava interesse, pensavano che fossi un genio. Invece non pensavo niente.

Spero in un evento da osservare, in qualcosa che riempia me e anche la pagina macchiata di inchiostro. Devo nutrire il mio mal di testa, avere un nuovo disagio, frammentarlo in tanti piccoli dettagli da poter esaminare. Dormo molto. Non succede niente a un corpo riposato e deprivato di gran parte dei sensi. Mi concentro sul battito cardiaco, mi sembra lento. Ma è regolare. A volte ho la sensazione di morire così, in diretta, mentre mi tasto il polso e conto trentanove pulsazioni al minuto. Non muoio, sono solo intorpidita dalla noia.
Adesso amo il vento. Mi ha innervosito per anni, mi ha sempre resa collerica. Qui mi chiama e mi racconta. Piccole cose ma almeno, con gli occhi chiusi, mi fa sognare. Interpreto fischi e sussurri. Ha la voce di tutte le persone che mi mancano, poche e preziose. So che le rivedrò. Ma quando?

Mentre scrivo, la penna ormai scorrevole sulla carta, la testa sgombra dal dolore, riconosco il rumore di una macchina che arriva. Per un attimo penso di scappare, di non farmi trovare. Ormai mi sono adattata. Dalla fessura della porta accostata vedo avvicinarsi due ragazzi. Sono così giovani. Sento delle lacrime umilianti arrivare al bordo dell’occhio. La vecchiaia mi ha resa fragile.
«Mamma, sei pronta? Torniamo a casa. La vacanza è finita.»

4 Replies to “Quando?“

  1. splendida fluente varia raffinata scrittura, radiografante fatti luoghi e stati d’animo, sintesi e profondità insieme, dolente anamnesi….straordinaria!

  2. Sono commossa e nello stesso meravigliata di come tu, cara Stefania, sia riuscita ad esprimere gli stessi miei sentimenti, le mie sensazioni.
    Lo struggimento è qualcosa che non mi abbandona mai; è bello e rassicurante che tu riesca ad esprimerlo come vorrei. Splendida scrittura.
    Grazie.
    Beatrice.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *