Canti

Uscendo in strada, sull’asfalto o dalle scale dell’ingresso principale si vede il cuneo della montagna, la spaccatura in seno alle case del paese.

La roccia che frastaglia la sommità pare il Golgota; infatti ci campeggia una croce, ma non si vede da quell’apertura di paesaggio, si deve scendere a valle, lungo il fiume, sopra il ponte tibetano che una volta un parrocchiano ha attraversato, poi oltrepassato.
Don Carlo gli ha fatto la messa speciale, perché era così giovane, un gran peccato.

Dietro l’altare della chiesa di San Giorgio c’è una terrazza in cui bruca l’erba una tartaruga dalle zampe posteriori struscianti il pavimento. Forse è cieca, chi lo sa, paiono tutte cieche le tartarughe.
Di sicuro sente tutte le liturgie ma nessuno la contempla al di là del vetro con le lacrime perfette della Madonna.

Mentre il prete solleva il corpo, questo pare il disco solare dei tempi andati, quando il sole era altissimo, quando il Sole era l’Altissimo e lui solo un padre, non il Padre. Lui.
Ora fa buio, in quel paese piove spesso.
Era gonfio di pioggia il fiume che si è nutrito della disperazione di quel ragazzo così giovane. Pioveva pure quando dopo la messa arrivò quella donna.

Era giovane, non come il ragazzo morto ma tanto giovane da potersi dire interessante.
Agli occhi delle vecchie rimaste a cibarsi delle ultime attenzioni del parroco prima della chiusura della chiesa, quella donna era un’altra Madonna: piangeva uguale, ma meno perfetta.
Aveva il volto scavato tipico dei tossici. Magra, filiforme, cappuccio grigio come le giornate che si portava appresso fin là dentro.
Volate via le vecchie, rimase col prete che spazzava le briciole di tante richieste così e sempre uguali. La sua era diversa.
O meglio, era uguale ma rinnovata da una tristezza che non aveva mai percorso quel posto.
Un conforto spirituale, mio figlio è morto, siamo distrutti.
Suo marito che non lavorava, sepolto in casa, solo lei aveva forze per farsi avanti e chiedere aiuto. Non erano suoi parrocchiani, spiegò a Don Carlo, non erano praticanti ma in quel momento non potevano fare altrimenti. Pure sua madre glielo aveva detto, di chiedere aiuto al padre di tutti.
Lei chiese al padre, padre Carlo come lo chiamava non sapendo l’appellativo con cui era solito farsi chiamare Carlo, il nome con cui lo conoscevano le più intime persone della sua vita manifesta.
Era un santo, diceva qualcuno. Così bravo, vai da lui, suggerì a Carola la madre quando il figlio morì di anemia, a così pochi anni che sarebbe un peccato rivelarli a chi li ha compressi tutti in una mano per farli esplodere di senso, troppo presto. Troppo.

Tira troppo vento in quel paese, forte e tendente al massacro.
Un tizio al bar dietro l’angolo dice che sotto le case sorge un cimitero indiano altrimenti non si spiega l’alto tasso di depressione, morti suicidi, cancri e drogati. Tutto troppo, come le lacrime invisibili di quella donna incastonata tra le losanghe di luce della chiesa al tramonto tipo il bassorilievo di un cavaliere morto in crociata.
Nessun bottino per lei in quel mondo, solo la terra resa santa sopra il feretro di un figlio che non ha mai potuto accompagnare al di là della soglia che gli stava allestendo per quando sarebbe stato il momento. Quel suo momento che ha sospirato in un sogno che ha anticipato l’estrema notte di un’anticamera di vita.
Tutto questo confessava nell’immensa cella di pietra di una chiesa vuota, da sola, in piedi, quel prete che è il padre, le disse la madre, quello più preparato.

Prese a frequentare la chiesa a intermittenza, poi in modo svizzero, più metodica, preparata. Adesso padre era don con quel Carlo che sottendeva una nota di voglia di esserne parte:
del nome, del cerchio, la sua famiglia, una via di fuga da quella casa – la sua, il marito – che somigliava al cenotafio di un figlio polverizzato dal tempo che passava passava passava come le rapide poco prima del ponte tibetano sul letto di quel fiume su cui avrebbe volentieri schiacciato un pisolino pomeridiano chissà se serale magari eterno.
Suo marito tentò il suicidio mesi dopo quei suoi pensieri di riposo.
Tornato a casa dal ricovero, a cena con Don Carlo, si sentiva come rinato e tornato bambino, il sostituto di suo figlio sul campo di gioco di una vita ormai compressa.
Si tennero le mani per la preghiera prima del pasto.
Signore benedici questi doni per mantenerci nel tuo santo servizio. Amen. Buon appetito. Insomma Tomma’ quella moto e tutti i discorsi che un padre fa al figlio.
La mano di Carola rimasta al confine delle dita inanellate da un rosario a grani di Carlo, suo padre, più uomo di quel Tommaso ridotto a un lattante svezzato troppo presto dai suoi farmaci.

Si uccise mesi dopo e al funerale Carola e il prete si scambiavano gli sguardi di chi è complice di una disfatta comune.

Gli inviti a cena si susseguirono, si fecero svizzeri, pian piano eterni.
Agli occhi delle vecchie che cantavano o scopavano la canonica, quella donna non era più così perfetta. Aveva rughe, dei chili di troppo, i capelli sporchi, forse la pancia.
Gira voce che don Carlo se la fa con quella donna che gli è morto il marito.
Ma chi, quello che s’è buttato?
Sì. Ma ti pare?
Eh, ma stanno sempre a cena insieme.
Lui va da lei tutte le sere dopo la messa. Mio marito porta il cane davanti alla chiesa e lo vede uscire con la macchina.
Quella non è di zona infatti, Mari’, non ci avevo pensato.
Signore, sarà davvero così?

Quando nacque suo figlio, il secondo, il più importante, chiese al padre di proteggerla, proteggerli entrambi, come fece il suo quando era il figlio.
Fu lui il padrino e quell’occhio di lei lo ricordano tutti.
Pareva l’occhio della Madonna che piange e non si vede quanto è cieco quello che succede dietro.

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