La città in agosto

Mia madre è malata, può muoversi poco, mai da sola.

Ha una forma rara di atrofia che la sta rendendo progressivamente immobile. Quando cadde dalle scale ormai dieci anni fa, nessuno si aspettava che potesse trattarsi di un male simile, nessuno pensava che mali simili esistessero.

In famiglia abbiamo imparato a regolarci di conseguenza, adottando i ritmi lenti della sua vita, che ora scandiscono in parte anche la nostra. Il tempo passato assieme a lei segue curve che variano con i mesi e con le stagioni; l’estate, in questo calendario, si distende con maggiore ampiezza, il suo tempo possiede uno spessore più profondo, la sua grana è più fitta. È inevitabile: le badanti vanno in ferie, gli amici partono per la montagna o per il mare, le sedute terapeutiche si interrompono sino alla fine di agosto. Perlopiù si resta a casa, a godere del refrigerio dell’aria condizionata che mio padre ha montato in salotto a fine maggio, attendendo che la giornata termini mentre su Rai3 passano vecchi documentari su Maria Antonietta o Napoleone.

Nei giorni di caldo, il sole in città cambia colore. È nero. Getta sui porticati una luce diversa, che ha la consistenza del fango: melmosa, sembra colare lungo i muri con una lentezza estrema. Le creature preistoriche che attraversano le strade camminano a passi lenti e tengono gli occhi socchiusi per evitare gli abbagli. I sanpietrini riflettono dal basso la luce diafana che inspessisce l’aria.

Io e mia madre usciamo non appena il sole comincia ad abbassarsi e la canicola scongiura. Prendiamo la via che da casa nostra porta al centro e in poco tempo siamo alla porta principale, porta San Tommaso. Dall’alto, spingendola in carrozzina, vedo la sua nuca e seguo i movimenti della sua testa, che come un animale curioso si volta a destra e a sinistra per osservare i dintorni.

La città comincia a ripopolarsi nel tardo pomeriggio, in giro ci sono soprattutto ragazzi e vecchi. Uscire dà più respiro che concludere la giornata in casa, la regola aurea dice che se si può, si deve andare fuori. Noi, fedeli servitori dell’abitudine, procediamo sulla pista ciclabile fermandoci di tanto in tanto davanti a qualche vetrina per adocchiare scarpe in sconto o camicie di lino. Attraversiamo il centro da sud e nord tagliandolo verticalmente, sino ad arrivare nella piazza centrale, dove se ci va beviamo qualcosa a un tavolino. Qui ci guardiamo in giro, attraversiamo con lo sguardo un silenzio che a tratti è totale. Anche i cani hanno caldo. Riposano distesi a terra. Con gli occhi pieni di perplessità, alzano la fronte e poi tornano ad abbassarla fissando il suolo. La gente beve dalla fontana al centro della piazza, sporgendosi in avanti mentre tiene gli occhiali sul petto perché non si bagnino.

Sogno spesso di trovarmi in una camera con mia madre. Tutto intorno a noi è buio, ma una luce che esce da un luogo imprecisato illumina di giallo le nostre facce. Lei cerca di parlare, io non capisco: chiede, forse implora aiuto, ma non riesce a far altro che mugolare in modo incomprensibile. Allora io mi avvicino e le infilo nella bocca prima la mano e poi il braccio, che si allarga senza fatica o dolore, e cerco di estrarle a forza le parole dalla gola, ritrovandomi in mano un pugno di farfalle, che svolazzano via non appena la apro. Le vediamo disperdersi nell’oscurità, accompagnate da un alone polveroso. Lei a quel punto mi guarda e mi dice con voce piena che avrebbe preferito trovare dei girini, nella sua gola, che le farfalle la impauriscono, mentre i girini no, sembrano così docili, sembrano avere un’infanzia.

Fatico a ricordare come termina il sogno, tutto si perde nella confusione del risveglio. So solo che non voglio raccontarglielo.

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