Materia

La prima volta che ho mangiato materia inorganica avevo dodici anni. Non fu una mia iniziativa, non ero una bambina così curiosa. Fu una scelta di famiglia.

Il primo piatto sembrava una minestra, non so dire cosa ci fosse dentro, immagino fibre plastiche sminuzzate e calce, o qualcosa di simile. Ne ricordo ancora la consistenza sabbiosa tra la lingua e il palato, il rumore secco della masticazione che rombava nelle orecchie, l’arsura, il bruciore alla gola, la fatica nel deglutire.
«Bevi un po’ d’acqua, tesoro», diceva la mamma, col tono calmo e sicuro di quando mi proponeva una medicina. Mentre mio fratello, bocca sporca di polvere, scaglie lucenti e un residuo fibroso che gli penzolava dal labbro inferiore, continuava a ripetere: «ma non sa di niente».
«Non badate al sapore», ancora la mamma, «è solo un inganno». Un mantra ripetuto per convincerci ad accettare la nuova dieta a base di sostanze non commestibili, l’ultima sua trovata per fare economia domestica.
Dopo quella prima volta ho mangiato di tutto: carta, pellicola d’alluminio, ceramica, legno, tessuti, colla, cenere, vernice, cotone, vaschette di polistirolo, terracotta, gommapiuma…
I piatti non avevano un bell’aspetto, eravamo abituati a tonalità molto più invitanti di quel grigio medio in cui si riducevano, da un pezzo a quella parte, gli ingredienti alla nostra tavola. Ma la mamma riuscì presto a rendere più allettanti i nuovi menu incolori e insapori. Si inventò nuove tecniche di preparazione e di trattamento delle materie in modo che per aspetto, consistenza e temperatura risultassero più simili al cibo che eravamo abituati a consumare. Le spezie, il sale e lo zucchero furono la nostra salvezza.
Alla fine un po’ ci abituammo. In fondo, ci si abitua a tutto.
Nostra madre era entusiasta, il nuovo regime alimentare offriva incredibili vantaggi in termini di risparmio. La voce un tempo destinata all’acquisto di generi alimentari restava in attivo.
Continuava a farci regali: scatole di Lego a mio fratello, Sneakers all’ultima moda per me, Smartphone, rasoi elettrici e altri sofisticati apparecchi a mio padre.
Trascorreva il tempo libero al computer, a visualizzare offerte e sconti promozionali, ad accumulare buoni acquisto e fissare consegne con i corrieri. Ricordo la sua espressione soddisfatta, quasi ebbra di piacere, quando la interrompevo nella sua attività preferita per chiederle di aiutarmi a fare i compiti. Allora il suo sguardo largo e lungimirante, dove all’interno sembravano moltiplicarsi mille luci e colori, combinazioni vincenti di numeri e probabilità, matrici di banconote e ogni mirabile prodigio dell’economia planetaria, si restringeva improvvisamente fino a inquadrare un panorama ben più misero e ristretto: la mia faccia di bambina perplessa e inquieta, con il quaderno di matematica in una mano.

Continuavano ad arrivare addetti in uniformi colorate, suonavano il campanello e scaricavano scatole o imballi all’ingresso di casa. Io e mio fratello avevamo ricevuto precise istruzioni: ogni consegna doveva essere portata nel garage, dove, al ritorno dall’ufficio, mia madre passava a ispezionare e sistemare i pacchi in pile e ripiani.
La mamma ci fornì poche istruzioni, declamò qualche sentenza medica sul beneficio dei minerali, ci mostrò col telefonino stralci di video dal taglio scientifico dove si lodava la capacità del nostro intestino di ingerire alimenti non convenzionali, come l’argilla e persino i metalli preziosi.
Ci indicò i suoi appunti: diversi file sul pc e un fascicolo di fotocopie e ritagli di giornali che nessuno si prese la briga di studiare, quindi procedette a fissare sul frigorifero una scheda scritta a mano, decorata con fiorellini e cuori colorati agli angoli, una sorta di piano alimentare con un elenco di materie varie e le rispettive qualità chimico-fisiche. Mi avvicinai per leggere qualche riga: polimeri, propilene, etilene, butadiene, peso molecolare, PA66, PVC, Teflon, C12H22N2O2, 1-phenylethene-1,2-diyl,¬•°±±±±~~˜—••°œ°••±±~—••°±±~~˜—••° œ°œ° … ma mi persi presto in caratteri inafferrabili, riccioli neri e ghirigori che si avvolgevano su loro stessi seguendo linee che tuttavia, a una certa distanza, risultavano ordinate e credibili.
Sembrarono tutti convinti che quella fosse una strategia vincente per la famiglia e per il futuro, io provai a mettere in dubbio qualche punto, per esempio quello riguardante la plastica, ma la mamma si scatenò in una spiegazione rabbiosa riguardante le nano e microplastiche. «Sono ovunque», disse, «nell’aria che respiriamo, nell’acqua che beviamo, nel dentifricio e nelle creme per il corpo, nei pesci e nel mare, ovunque. Ormai anche dentro di noi, nel nostro sangue e negli organi». Ci guardò per qualche secondo in silenzio, come ispirata. Certa che il terrore fosse calato su di me e su quanti sedevano a tavola, riprese a parlare con un piglio severo e rassicurante insieme. «Ci stiamo evolvendo. Non avete studiato a scuola Darwin? L’evoluzione? L’adattamento all’ambiente? È quello che succede a noi ogni giorno, solo che non ce ne accorgiamo. Con questo piano alimentare stiamo dando solo una spinta alla nostra evoluzione».
Dopo quel primo pasto, al quale di norma seguiva un’integrazione di glicerina, nessuno sollevò più obiezioni e ci abituammo al menu insipido e granuloso.

Nel giro di qualche settimana il garage debordava di prodotti e scatoloni che cominciarono a invadere anche l’ingresso di casa e la sala. L’assenza di nostra madre nelle ore d’ufficio appariva per tutti noi come un’oasi di pace, perché quando rientrava in casa l’attività era a dir poco frenetica. Passava dalle ordinazioni al computer – il quartier generale dal quale teneva sotto controllo diversi siti di vendite e aste online, con tanto di allarmi sonori notturni per cogliere di sorpresa i concorrenti addormentati e vincere premi e buoni – alla movimentazione e sistemazione dei pacchi consegnati. La notte la sentivo camminare in lungo e in largo, aprire serrature, chiudere porte, scartare e strusciare mobili e scatoloni. Il suo parlottare soddisfatto o rancoroso, a seconda degli esiti degli acquisti, riecheggiava tra jingle e musichette di spot digitali che assumevano nei miei sogni i toni dell’incubo.
In un primo momento nostra madre fu metodica, cercò di stivare le cose meno necessarie nel garage, di tanto in tanto prelevava oggetti che potevano rendersi utili nella quotidianità, ma poi la mole di ordinazioni divenne una bestia anarchica e fuori controllo.
Comprava di tutto: stock di detersivi, coperte e bicchieri, giocattoli e cosmetici, ma soprattutto vestiario, scarpe ed elettrodomestici. In camera nostra le scatole piene di nuovi acquisti sostituivano i mobili: il comodino, la mini sedia da scrivania a cui ero tanto affezionata, il cesto per i giocattoli, niente veniva buttato, ritrovavamo tutto nel menu del giorno dopo, sapientemente sminuzzato o cotto nel forno a microonde sotto forma di potage, frullati o zuppe dense e grigie.

Non dovevamo parlare con nessuno di ciò che avveniva in casa, altrimenti avremmo perso l’esclusiva sul nostro progetto privato.
A scuola, lontana dalla sorveglianza domestica, potevo ancora gustare deliziosi panini al prosciutto o merendine al cioccolato. Le amiche invidiavano i miei astucci, il set di matite profumate, le scarpe e gli zaini che sfoggiavo, ma non immaginavano il prezzo che dovevo pagare per l’illusoria vetrina di felicità.
Tutto quello che non veniva speso per l’acquisto di cibo al supermercato, veniva investito in uno shopping compulsivo. Non era importante cosa, ma come, ossia il fatto che arrivasse un flusso continuo di merce in casa, che i vicini vedessero il lusso e la ricchezza impressi nelle nostre abitudini.
La sussistenza era diventata una pura formalità.
Cesare scomparve quasi subito, all’alba della rivoluzione tra le mura casalinghe. La sua scodella stracolma di carta straccia rimase ad attenderlo per qualche giorno, infine venne rimossa per far spazio a nuovi ingombri inanimati. La mamma non fece sconti a nessuno, ma se Cesare poté svignarsela grazie a quell’istinto di sopravvivenza che gli animali sanno attivare in caso di pericolo, in barba alle convenzioni sociali e ai legami affettivi, per noi non fu lo stesso. Ero molto affezionata al gattone rosso che avevo allevato personalmente. Gli volevo bene, ma non provai l’angoscia e il tormento che ero solita ipotizzare quando pronosticavo il fatidico giorno in cui sarebbe potuto venire a mancare. Mi scoprii, con sorpresa, sollevata, sgravata di un peso.

Vedevamo sempre meno la mamma, scompariva ogni giorno dietro le sagome dei detriti che si stratificavano in salotto, nell’angolo dal quale cercava suo malgrado di controllare la logistica delle consegne e il reperimento dei pasti. Usciva di rado, solo quando era capace di scavarsi un varco verso l’ingresso e soprattutto quando riusciva a trovare l’abito giusto tra i vari strati compressi che avevano inghiottito il salotto.
Il babbo non diceva niente, trascorreva il suo tempo nel bozzolo di coperte e buste di nylon che aveva ricavato di fronte alla TV, infilata tra uno scatolone e l’altro dell’enorme totem di cartoni.

La nostra camera è stata l’ultimo avamposto di una certa libertà di movimento. Le cose entravano, ma uscivano anche, perché i bambini sono esseri transizionali e come tali c’è un continuo ricambio nei beni necessari alla loro crescita.
Io e mio fratello nascondevamo sotto le coperte piccole scorte di cibo che prelevavamo a scuola dai distributori automatici. Ma presto l’appetito passò. Non sentivamo più quel morso allo stomaco, il borbottio pre-pasto che risuona tra le pareti interne del corpo per annunciare l’imminente trionfo di sapori sul palato, la dolce melodia dello sgranocchiare gustoso, la consacrazione della sopravvivenza divenuta ormai un lieto rituale in ogni famiglia, ma che noi avevamo sostituito con una pausa insignificante e noiosa, accompagnata da sguardi spenti e passivi, con suoni riprovevoli e una mancanza completa di odori.

La mamma scoprì delle agevolazioni fiscali e convenienti forme di rateizzazione sulla sua carta di credito che le diedero uno slancio ulteriore nelle spericolate compere.
Fu allora che il nostro appartamento raggiunse la saturazione. Ogni spazio libero venne colmato con abilità ingegneristica che mia madre esibì con disinvoltura, come un talento da sempre posseduto che finalmente poteva liberare nell’entropia della casa.
Non uscimmo più all’aperto e non frequentammo più la scuola, la porta d’ingresso era divenuta inaccessibile. Ci muovevamo incuneandoci tra gli interstizi vuoti che scovavamo. Facevamo leva con i piedi, li puntellavamo su una zolla dura, la punta di una scatola, il nucleo denso di un nugolo di abiti compressi, e ci spingevamo oltre allungando le braccia in avanti con cui ci aggrappavamo a qualcosa, quindi tiravamo forte il resto del corpo che strisciava come in un mare di cose, un mare immobile e stagnante che si lasciava attraversare faticosamente.
Alle volte restavo impigliata in una cintola, nel manico di un elettrodomestico. Capitava più spesso a mio fratello, che era rotondetto e aveva poca forza nelle braccia. Allora lo aiutavo come potevo; il modo migliore era procedere in fila, lui davanti e io dietro a spingerlo. Stazionavamo a lungo distesi, allineati lungo un asse longitudinale, credo, anche se le coordinate spaziali vennero presto a mancare in quello spazio impenetrabile e compatto, perso nei recessi di una casa che non aveva più un sopra e un sotto, una destra e una sinistra, un fuori e un dentro, ma solo un’interiorità densa e soffocante. Restavamo lì a dormire, a sognare, a immaginare d’essere altrove.
Avevo l’impressione che ci fossero altre presenze attorno a noi, le vedevo muoversi di soppiatto, sgusciare via in un pertugio, infilarsi tra le pieghe di tessuto delle pareti imbottite o vibrare dentro un giocattolo di plastica. Cercavo di seguirle, afferrarle, stringerle tra le mani, ma erano troppo veloci, avevano l’aspetto di filamenti di stoffa o grappoli di lattice rosa, carta straccia filante e serpeggiante. Oggetti concreti, con una forma tangibile e geometrica o in completo disfacimento. Apparivano all’improvviso, al limite del mio campo visivo, si muovevano fluide, senza suoni, in quei cunicoli ovattati che abitavamo come protuberanze scavate nella pienezza del nostro vecchio appartamento. Cominciai a pensare che potessero essere le anime delle cose che ci tenevano prigionieri nel loro muto dominio o forse – ipotesi ancora più spaventosa – scappavano dalla nostra stessa voracità. Mi facevano paura, e non perché temevo che potessero in qualche modo ferirmi, ma perché riflettevano quello che stavamo diventando. Mi stancai presto di ravvisarle e soprattutto di tentare di acciuffarle.

Non so che fine fece mia madre, semplicemente la persi di vista. Probabilmente rimase intrappolata al computer, ogni tanto la sentivo imprecare per una vendita andata male o per l’impossibilità di rispondere al campanello dove un corriere insisteva per abbandonare il suo pacco nella montagna che presumevo si fosse formata di fronte alla porta d’ingresso. Poi il campanello smise di suonare, come i telefonini, scarichi e persi nelle profondità di quel mare di materia multiforme. Invece la televisione procedeva inesorabile con le sue arringhe politiche, con in fischi dei rigori, gli spot e le sigle. Sentivo mio padre canticchiarle da qualche anfratto.

Quando il tetto dell’ala est della casa ci crollò addosso, avvertimmo semplicemente un leggero aumento di pressione, ma non fu così terribile come si potrebbe immaginare. Il problema era che non potevamo più muoverci e gli strati sopra di noi si compressero tanto da ridurre l’ossigeno respirabile. Provai a chiamare mio fratello, sfiorai la sua mano, la tirai forte e lo svegliai. Disse qualcosa d’incomprensibile, forse ancora dentro ai suoi sogni, non faceva che dormire, buon per lui!
La mamma non parlava più e anche la TV si era assopita in un provvidenziale letargo. Sentivo mio padre russare da qualche parte sotto di me, o forse sopra. Poi percepii una vibrazione cupa e profonda, come un terremoto, allora immaginai che la casa stesse per sprofondare nelle viscere della terra, ricoperta da una montagna di consegne che da fuori incombeva su di noi. Mi preparai al peggio, strinsi la mano di mio fratello, mano che vibrò appena in quella scarica di scosse telluriche: riusciva a darmi sollievo, a farmi sentire meno sola, più viva e distante dall’opprimente sensazione di essere divenuta anch’io una cosa inorganica.
La casa crollò, ma non precipitò nella voragine che avevo immaginato. Quello che scoprii dopo fu un cielo sereno e soleggiato in una mattina di luce, piena di rumori che avevo dimenticato: il cinguettio di qualche uccello, lontani schiamazzi di bambini, il ruggito di un motore.
Quando la gru smosse le ultime macerie sopra di me, la luce mi abbagliò e l’aria fredda mi ghiacciò la faccia. I detriti cominciarono a rotolare via, mescolati a frammenti di stoviglie, vestiti, utensili, scarpe, videogiochi, libri, lettiere per gatti. La pressione si affievolì e io e mio fratello restammo sospesi sopra i cumuli di materia eterogenea che si sgonfiavano, si srotolavano, perdevano compattezza e forma, funzione e significato.
Quando venimmo tratti in salvo dalla nostra casa, questa non esisteva più: le pareti che avevano contenuto il delirio di mia madre, la sua smania di onnipotenza e la moltitudine di oggetti che era riuscita a stipare dentro, avevano ceduto alla pressione interna e ai colpi della palla demolitrice.
Non avevamo più niente. Solo i nostri copri stanchi e gli occhi increduli per contemplare il disastro. E io non ero mai stata così felice di non possedere niente.

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