Lei scricchiola

Dove vai e da dove vieni

L’autobus 8 percorre l’intera città da nord a sud e poi esce, segue la strada provinciale e arriva a Mattarello.

Lo prendi da qualche parte fra il Tigotà e il bar Pingu, non ricordo precisamente dove. Sali e ti siedi in uno dei posti bassi, nella direzione opposta a quella di marcia. A un certo punto ti vedo, vedo i tuoi occhi rovinati. Non ho mai visto dove scendi.

Dove c’è tutto quel sangue

Il sole di giugno si scioglie sulle superfici come le forme di caciocavallo che si appendono sopra la griglia. Dopo pochi minuti è già un fumo denso e pieno che stanca gli occhi e si porta dietro un odore di fieno e di stalla. Poi, il calore cola lento, prende corpo e raggiunge la pelle. La bambina fissa la strada, le macchine immobilizzate nell’asfalto che butta vampate. Con la mano piccola si strofina gli occhi. Adesso può vedere di nuovo la strada. Sulle strisce pedonali vede dei segni rossi. Sono larghi e risaltano su quel bianco irreale dipinto di fresco. Sono come mani enormi, pensa la bambina, che vorrebbero prenderla e tirarla verso di loro. Lì, forse, c’è un luogo senza strade né macchine pronto ad aspettarla. Lì, dove c’è tutto quel sangue.

Maschera di madre

Il Santa Chiara ha una pianta che ricorda un omino con le braccia larghe e le gambe leggermente aperte. Ci si entra da un solo lato, che sta esattamente in mezzo alle gambe. “Vado a prendere il papà, tu resta qui con la signora, torno subito” le ha detto lo zio, prima di scompigliarle i capelli con la mano. Lei ha sorriso e ha guardato la vecchia. I capelli grigi le scendevano lungo le spalle, sembravano i capelli della mamma. Da vicino, aveva lo stesso odore dei grandi armadi della nonna. La signora le aveva raccontato dell’ospedale Santa Chiara, mentre parlava le indicava col dito le grandi pareti color cenere.

Eccomi, piccolina” le dice una voce alle sue spalle, prima di prenderla per mano “vieni, entriamo dentro”. La bambina rimane ferma. Non ci vuole entrare lì dentro. Le fanno paura quelle immense pareti grigie. Non è mai entrata in un ospedale.

Piccolina mia, ora c’è papà qui con te” le dice l’uomo, accovacciandosi per guardarla da più vicino. Lei pensa a quelle enormi mani rosse che ha visto sulle strisce. Per un attimo, le sembra di essere sfiorata nuovamente da quelle dita e urla, urla forte divincolandosi dal padre. Si tocca le guance. A piccoli passi corre verso la strada, si allontana dal cancello. Lì dentro non ci vuole entrare. Ma il padre la raggiunge e la prende per il braccio, stavolta senza dolcezza, e inizia a camminare verso l’ingresso. La piccola piange. Quando sono all’interno, il padre la stringe a sé come una bambola di pezza. Insieme percorrono corridoi, superano porte, prendono ascensori grandi e troppo illuminati. Poi il padre la posa a terra. Fa per dirle qualcosa, ma alle sue spalle si diffonde un rumore di rotelle, di metallo e di passi. “Signore, si sposti per favore, dobbiamo passare” dice un infermiere. Sta portando un letto nel lungo corridoio. Nel letto c’è una persona, è ficcata sotto le lenzuola fino al collo. Ha la testa fasciata, ma si vedono ugualmente lunghi capelli castano scuro. Il volto è ricoperto dalle bende, striate di un rosso e un giallo infetti. Sotto a quelle bende c’è sua moglie. Nascosta, rintanata. Ridotta a maschera di madre.

Dove va la notte quando finisce

La notte non dormi e guardi fisso le ombre che si mangiano i muri. Se avessi gli occhi di un gatto il buio sarebbe una casa che ti protegge. Ma tu hai occhi di topo che per vedere devono muoversi velocissimi. La notte si stende sulle case e sulle strade. Al di sotto, tutto muta e si spegne. Le linee delle pareti sbiadiscono e la stanza sembra un unico muro che ti si stringe attorno. Cammina lentissima la notte, è una carovana che si srotola in un deserto. Tu la aspetti poco oltre, ogni tanto ti giri e la guardi. Guardi quel serpente di cui non vedi la fine, vorresti essere lì, nelle sue spire, smettere di doverlo soltanto guardare. Saresti anche tu una cosa lenta e oscura, e ci sarebbe qualcun altro a guardarsi indietro. A chiedersi nell’ombra della stanza dove va la notte, dove va quando finisce.

Cocci

Fuori dalla chiesa la luce taglia gli occhi. Sono usciti tutti, il sole è forte e macchia di sudore le camicie sotto i vestiti neri. La gente inizia a camminare, seguono tutti la macchina in cui hanno messo la bara. Anche suo padre cammina con loro, tenendole la mano. Mentre camminano, le case sembrano seguirli come giganteschi cani al guinzaglio. Ora la processione sta per entrare da un grande cancello. Ai lati le pareti le sembrano enormi braccia che da un momento all’altro potrebbero colpirla. E lei che è un puntino in mezzo a quel grumo di giacche nere vorrebbe essere ancora più piccola. Dentro la gente attraversa aiuole verdi piene di tombe. La piccola le guarda, le sembrano denti conficcati nel suolo. Sotto ai suoi piedi la ghiaia scricchiola. La bambina si stacca dal padre, si abbassa, raccoglie uno di quei sassolini e se lo rigira fra le mani. Lo guarda sempre più da vicino, finché il suo sguardo non diventa nero come la giacca di suo padre. Quando rialza la testa però lui non c’è più. È rimasta indietro, attorno a lei non c’è più nessuno. Con una mano si ripara dalla luce del sole e prova a guardare avanti: solo sassolini bianchi e quelle tombe. La piccola inizia a correre, zigzagando lungo quella lingua di ghiaia. Si ripara gli occhi con le mani e senza accorgersene sotto i suoi piedi non c’è più la ghiaia ma l’erba. Un verde ruvido che la circonda. Poi tutto si colora di rosso. La testa le pulsa, gli occhi le bruciano. Ogni cosa le sembra sanguinare, c’è quel rosso dappertutto. La bambina urla, si copre il viso per non vedere, riapre gli occhi e quel sangue è ancora lì. Vorrebbe correre, ma nello scatto urta qualcosa che finisce in pezzi ai suoi piedi. La piccola guarda in basso e vede i cocci di un vaso, degli steli, delle foglie e un insieme di petali. E quelle tombe grigie che la cercano, fra il sangue e i cocci.

Lei scricchiola

La guardo e intorno il resto annerisce. Il viso è una collina senza sole, i capelli spettinati simili ad arbusti inquieti. Poco al di sotto, le labbra si distendono come un litorale. Sono condannate a compiere quel rituale. Ad aprirsi e poi richiudersi, mentre all’interno della bocca il meccanismo procede inesorabile. Vorrei tenderle una mano, accarezzarle una guancia. Non le direi nulla, lascerei che si sentisse per un istante qualcosa di diverso da una mascella che tritura e distrugge. Le indicherei col dito lo spazio al di fuori, dove la luce ancora esiste e non si spegne. Oltre il finestrino la notte è finita e non cammina più. Ci andiamo insieme, le sussurrerei, nel posto in cui precipita e si schianta. Lei mi guarda, un insieme informe di qualcosa andato in pezzi. Il mondo le preme contro e non posso salvarla. Il mondo le preme contro e lei scricchiola.

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