Caffè turco

Quella mattina Arme aprì gli occhi e li richiuse immediatamente per la troppa luce. Sollevò con lentezza la testa e scoprì di aver dormito sul tavolo in soggiorno. Fissò il legno, mentre un odore di bruciato le si infilava nelle narici.

Non era di qualcosa che ha appena finito di ardere; era più un sentore, una nota di sottofondo che sembrava provenire da lontano. Non si chiese da dove esattamente, perché il mal di testa cominciava a prendere il sopravvento. Staccò a fatica la lingua dal palato, col corpo che richiedeva una cosa soltanto: caffè.
Alzarsi fu uno sforzo notevole, come lo fu camminare verso la cucina – riuscì anche a inciampare in un libro lasciato aperto ai piedi del divano. Arrivata ai fornelli, afferrò il cezve con mano poco sicura e lo riempì d’acqua; vi aggiunse lo zucchero, mescolò e portò il bricco sul fuoco. Attese lì, in piedi, chiudendo le palpebre di tanto in tanto.

«Il caffè turco non fa passare le sbronze». La voce della sorella le arrivò ovattata. Arme si voltò a guardarla. Portò le labbra in avanti.
«Hai comprato un altro vestito».
«È tuo. Non ti sta più».
«Ah, sì. Vedi a che serve una sorella maggiore?»

Si fissarono, Arme col mento sollevato, Ines con le braccia incrociate sul petto magro. Nel frattempo, l’acqua cominciò a bollire. Arme ci mise dentro il caffè macinato, mescolò, riportò il cezve sul fuoco per la seconda ebollizione.

Alla fine, Ines disse: «Vuoi parlare di che è successo ieri?»
«Che giorno era?»
«Non scherzo, io».
«Nemmeno io. Dai, sai sempre tutto, dimmelo tu».
«Për dreq…» Ines si passò una mano sulla fronte.
«Perché parli in albanese? Non sai dirlo in italiano?» fece Arme, sarcastica. Ines aveva imparato l’italiano anche più in fretta di lei. Si incartava facilmente sulle parole, però, quando aveva i nervi a fior di pelle. E questo Arme lo sapeva.
«Non interessa adesso, volio… voglie…»
«Voglio, si dice voglio. E la parola che tentavi di dire prima è maledizione. Ce la fai? Sono troppo difficili?»
Ines la fulminò: «Non diverte?»
«Non ti diverte, Ines. Io invece mi diverto un sacco».

Il borbottio che venne dai fornelli fu il segnale per allontanare il cezve dal fuoco. Arme lo fece, poi aspettò per qualche istante che il caffè si placasse. Quando si voltò, pensava di dover affrontare la faccia offesa della sorella; Ines, però, aveva gli occhi bassi, quasi velati, come se fosse altrove. Solo le mani la tradivano: si era seduta sullo schienale del divano e ora ne artigliava la pelle, facendo affiorare le vene in superficie. Le seguì con lo sguardo lungo tutto il braccio, passando per la curva del gomito e per gli omeri, fino alle due conche profonde alla base del collo. Una volta, quando lei aveva dieci anni e Ines soltanto quattro, aveva rischiato di lussarle entrambe le spalle mentre giocavano a vola vola. Tentò di ricordarsi come lo chiamavano in albanese, ma sentiva la testa vuota, proprio come quel giorno dopo gli schiaffi del padre. Lui non aveva voluto sentir ragioni: la colpa era di Arme, tutta di Arme, nonostante lei tentasse di spiegare, con una logica che riteneva inoppugnabile, che una cosa così divertente non può farti nessun male.
Ines respirò profondamente, come se si stesse risvegliando. Arme ne approfittò per rimettere il cezve sul fuoco. Il caffè richiedeva un’altra bollitura, l’ultima, più lunga della precedente.

«Arme, dobbiamo parlare di ieri» disse in fretta Ines. «Ti ricordi cosa hai fatto?»
«Ho studiato».
«So che pensi che non sono affari miei…»
«Appunto, non lo sono. Pensa ai tuoi, di studi». Il pensiero si interruppe, ma la bocca continuò: «Mamma e papà non saranno contenti».
«Cosa c’entrano mami dhe babi
«Vedrai quando sentono che all’ultimo esame hai preso diciotto».
«A me non importa questo», rispose Ines. Lo disse con una tranquillità che non fece che aumentare il fastidio di Arme.
«Ah, no?»
«No».
«Be’, a me neanche», sbottò lei alla fine.
«E allora qual è il problema?»
Ines si era alzata dal divano, avvicinandosi a lei. Nel silenzio, si sentì solo il caffè che ricominciava a bollire. Poi Arme rispose: «Non so di cosa parli».
«Dua të të ndihmoj… tu però mi devi parlare».
«Ti ho detto», e qui Arme alzò la voce, «che non c’è nessun problema».
«E allora perché sono mesi che sei così? Da quanto non sei sobria? Ieri sera stavi per incendiare casa!»

Arme non riusciva a capire di cosa stesse parlando e stava per dirle di smetterla, quando le tornò in mente l’odore di bruciato che aveva sentito appena sveglia. Tentò di ricordare cosa avesse fatto il giorno prima, ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a mettere insieme i pezzi: del passato recente vedeva solo delle ombre senza alcun contorno netto.
Fu la mano sinistra di Ines ad afferrarle il braccio in quel momento e a riportarla alla realtà. Arme la guardò: non era più il soldo di cacio che si bruciava le dita toccando le pentole bollenti. Era alta, bella; forte. Solo gli occhi erano velati di lacrime, ma lei non aveva più intenzione di calmarla cantando come faceva allora. Quel tempo era lontano. Una rabbia sorda cominciò a premere sulle pareti del cranio. Allontanò la mano della sorella e disse tra i denti:

«Më le të qetë».
«Dai, Arme, adesso chiamiamo mami dhe babi e gli dici…»
«Ti ho detto di lasciarmi in pace».
«No, ti aiuto io, li chiamo io…»
«Smettila, Ines».
«Ma tu ieri mi hai detto… piangevi…»
«Adesso basta!» urlò Arme. «Mi spieghi cosa vuoi da me? Non hai già la tua vita? Vuoi prenderti anche la mia?»

Mentre gridava l’ultima domanda, Arme sollevò la mano destra e artigliò la gola di Ines.
Soltanto lo sfrigolio del caffè che traboccava sul fuoco fu capace di risvegliarla. Arme mollò di colpo la presa. Dando le spalle a sua sorella, allontanò dai fornelli il caffè: aveva smesso di straripare. Si aspettava di sentire i singhiozzi di Ines da un momento all’altro, i singhiozzi che Arme sapeva bene come far passare, come quando si ustionava le dita, come quando si sbucciava le ginocchia e la guardava chiedendo aiuto, e lei riusciva sempre a farla sorridere, e allora Ines si lanciava tra le sue braccia, e sì, sarebbe andata così, proprio come allora…
Ma non ci fu nessun singhiozzo. Solo dei passi leggeri, che diventavano sempre più distanti, e una porta che si richiudeva con delicatezza.
La luce del giorno continuava a entrare da ogni dove, inondando la casa. Arme rimase a fissare il fumo che usciva dal cezve. Avrebbe voluto accasciarsi sul divano, aspettando che l’aroma intenso le alleviasse il mal di testa. Ma aspettò ancora lì, senza voltarsi.

Era stata sua nonna a insegnarle come preparare il caffè turco, il giorno della nascita di Ines. Arme si lamentava perché mami dhe babi non tornavano a casa. Allora la nonna l’aveva presa in braccio e lei aveva seguito per filo e per segno tutti i passaggi, affascinata. Ricordava quel giorno meglio di tutti gli altri.
Aveva poggiato la testolina sulla spalla della nonna, mentre lei le spiegava che il caffè turco è come gli uomini, che si agitano di continuo, ma poi ogni tanto devono placarsi, allontanarsi dal fuoco, se no si bruciano. Il caffè turco è così buono e intenso perché richiede tanta cura, come quando ci piace fare una cosa o vogliamo bene a una persona.
Ma soprattutto, il caffè turco vuole tutta la tua pazienza: quando è pronto, versalo nella tazza e aspetta che la polvere in eccesso si depositi sul fondo. Non puoi vederla, perché il caffè è troppo scuro. Devi solo aspettare e lasciar sedimentare. Se non lasci sedimentare, ti affogherai con la tua stessa impazienza. Invece di capire le cose, finirà che ti andranno solo di traverso.

Il fumo si era ormai diradato. Arme si voltò. In soggiorno c’erano bottiglie vuote, portacenere colmi; gettati alla rinfusa per tutta la stanza, c’erano i libri da cui aveva strappato l’enorme numero di pagine che poi aveva ridotto in cenere sotto la finestra.

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