Mi strapperei i denti

Poiché ogni parola è menzogna
Ogni sorriso, smorfia e ogni gesto, falsità.
Denti”, Marracash

«Mi strapperei tutti i denti e te li darei in una scatola.»

«Ma che cazzo stai dicendo?»
«Che mi strapperei tutti i denti e te li darei in una scatola. O li vuoi forse in salsa di salamoia? Basta chiedere.»

Non si è mai arresa alla fine della loro relazione, pensa Giacomo:
«è inutile che tu sia così aggressiva, le cose iniziano e finiscono. Bon, nessuno ne ha colpa. Tu ti accanisci, ti accanisci, come con un dente cariato, altro che quelli che ti vuoi strappare.»
«Certo. Le cose iniziano e finiscono, ma come finiscono, eh? Come? Con un messaggio del cazzo, ecco come finiscono!»

Un incisivo è una finestra aperta sull’universo, pensa Maddalena. E quelli di Giacomo sono appuntiti e fragili. Non le importa davvero del modo in cui è finita, ama tastare le sue reazioni. Vederlo imbrigliarsi nei suoi stessi tentativi di razionalizzazione e servirli agli altri su un piatto d’argento, come infiocchettati, la diverte. È come smascherare una piccola menzogna: innocente, rosa, paffutella. Come un chewing gum.

Il chewing gum è una specie di scivolamento interno alla materia, uno sconfinamento. Un trick. Ti dice tu sei qui ma anche lì, sei un po’ così ma anche un po’ cosà. Dice è da una vita che ti concedo quest’illusione e tu la butti nel cesso. La rendi uno straccetto scolorato e ci sputi sopra. Ti neghi l’accudimento perché l’acqua, tutta l’acqua del mondo, ti ha tradito, sentenzi. Disconosci l’alcova e la pelle morbida, ogni respiro lo rendi gravoso. Ti guardi e non ti riconosci, non puoi. Allora mastichi una gomma la informi la osservi la offri al tuo amico, al tuo amante. È una profonda insufficienza, un segno meno meno, ma ecco che ti sforzi di trovare una giustificazione che sia percettivamente accettabile. Che s’appiccichi. Che tenga ancorata la gengiva.

«E comunque cosa avrei dovuto fare? Mi hai messo alle strette. Non riesco a vivere sulle montagne russe. Tutta quella storia del transfert e dei legami primari disfunzionali… non riesco a gestirlo, lo capisci?»

Eccolo, il coltello.
Il coltello è un’incisione che lacera le carni: avete litigato, o per meglio dire, avete sbagliato e siete l’oggetto-soggetto di disappunto. L’altro si gira un’altra sigaretta e si rinchiude sul balcone. Ondeggia un po’ i fianchi mentre è appoggiato al muro, rientra, impugna il cellulare con una torsione nervosa, riesce. Sta scrivendo all’ex, non sta scrivendo. Sta scrivendo all’amico che tutti i suoi date sono fallimentari e dovrebbe cambiare giro, magari unirsi al suo. Sta pensando di sbatterti fuori di casa e di riportare indietro Tom Fordy, il Maine Coon che avete preso insieme. Ma è anche: dove sono finiti i tuoi “non me ne frega un cazzo”? Dei soldi, della vita borghese, del bagnasciuga, di come tenere a bada gli esaurimenti nervosi. Il coltello non media, non edulcora: scava. È la parte esterna, più dura, è l’osso vero e proprio. È tutti quei: non te ne fregava un cazzo, e invece.

E invece eccoci qua. Ingoiati dal quasi – freddo cittadino, sotto anestesia.

«Dai, che è ora questa storia? Ti nascondi dietro un dito. È che ti ho detto come la penso, e non ti è andata giù. Non sono l’unica a essere cambiata. C’era un tempo in cui non dico ch’eravamo allineati ma ci incastravamo in qualche modo.»
«Ma anche adesso ci incastriamo, in qualche modo. Non è questo il punto.»

Maddalena si morde la lingua. Vorrebbe rispondere: «ma chi vuole incastrarsi più», la vacuità però la stanca. Tentenna: «e comunque chi ti dice che…» Si rimorde la lingua. Basta, basta, pensa. Sarebbe fiato sprecato. Giacomo distoglie lo sguardo come si fa con l’ago dell’iniezione che l’infermiera ti sta puntando addosso. Si distrae da quel “che” accoltellando con la cannuccia il suo McFlurry Oreo. Le panchine sono cosparse di piccole gocce d’acqua e i ragazzini cercano di farsi un drum scambiandosi i componenti. Maddalena lo sfida fissando lo sguardo, ma viene interrotta da una voce metallica: “4096, McFlurry smarties”.

Infine l’involucro.
L’involucro non media, non uccide nemmeno: è la parte porosa. È passivo: assorbire e attutire sono le uniche funzioni. Sono le foto polaroid appese alla parete che verranno sostituite da un telo grande e bianco. Le tracce di memoria che si fisseranno su un profumo solo per contraffarlo e mischiarne i connotati, renderli sogni. Gli attimi vissuti come una corsa senza precipizio al termine ma anche senza slancio. È il passeggero sul treno che guarda il passeggero in banchina e ne disconosce il mondo. È il: nulla importa davvero, nemmeno se stai annegando, nemmeno se componi insieme tutti i pezzi. È lo spirito del dente, incastrato tra un’esistenza molliccia impregnata di sangue e cellule primitive e quella terrena, solida, dell’osso. È il filtro.

«Poi lo vedi, è questo l’altro problema. Te ne stai zitta per minuti, ore e chissà che cosa stai pensando, ogni volta.»
«Mi stavo chiedendo solo che tipo di spirito hanno i tuoi incisivi.»
«Va bene, mi arrendo…»
«Che poi, ‘denti’ è quasi l’anagramma di ‘Tinder’, l’hai più usato da quando ci hai incontrato me?»
«No.»
«Magda.»
«Cosa?»
«Andiamo a casa ora, fa freddo.»
«…»
«Non lo so, c’è altro che dobbiamo o possiamo dirci, realisticamente parlando?»
«…»
«Vabe’. Vuoi anche un toast?»

Le gocce sulla panchina si condensano in brina. Da lontano, lo sferragliare di un tram.

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