I nomi degli alberi

Lei gli insegnava i nomi degli alberi.
Lui non le aveva ancora preso la mano,
ma entrambi sapevano che l’avrebbe fatto.

Quando la folla smette di premere, trovando una collocazione provvisoria, Arturo getta lo sguardo in qualche posto il più possibile lontano e si ferma, scosso solo dai movimenti della metropolitana.

È attraversato da molti pensieri che forse sono uno solo, quello di mantenere l’equilibrio e la distanza da tutta quella gente. Lo infastidisce ogni contatto fortuito, la gamba di quello e la borsa dell’altra, una signora che non trova stasi e si agita ferma su sé stessa, e la mano, immagina sicuramente sudata, che lo urta di continuo sul passamano.
Ha amore per il mondo, ma il contatto con quell’umanità varia e piena di vita, una vita statica, in attesa di un mezzo che arrivi a destinazione, lo riempie d’orrore. Distolto lo sguardo dal punto lontano, si perde a rintracciare peculiarità in quei visi, e la sua curiosità è mista a sgomento. Si chiede ad esempio come faccia un tale a masticare la gomma così rumorosamente, e una ragazza ad avere lo sguardo così fisso. In generale, si chiede come possano sembrare tutti così vuoti, privi di sentimenti anche se sicuramente come lui attraversati da miriadi di sensazioni, confuse e più chiare.
A ogni fermata sale più gente di quanta la carrozza apparentemente ne possa contenere, e lui si fa sempre più stretto. Ama contare quante persone leggono, e cosa, ma fin dove arriva il suo sguardo non ne scorge nessuna. Dall’altra parte del vagone vede poi una ragazza che legge, non può indovinare cosa, da quella distanza, se non che è una qualche edizione Einaudi, bianca. Se ne sta a fissarla quanto può, e lo sforzo, le persone, il fastidio del contatto gli fanno girare la testa. Si spaventa, sente una morsa allo stomaco, si rimette in una posizione il più possibile statica e comoda, ma la testa non smette di sfuggire al suo comando e lo stomaco di ribellarsi. Ha paura. La carrozza si sta a mano a mano svuotando, lui si impone di stare calmo. Non c’è ancora posto per sedersi, e non ha tempo di chiederlo a qualcuno perché si sente mancare, e cade, e sviene.

Il bianco che vede appena aperti gli occhi è il bianco più forte e avvolgente che gli sembra di aver mai percepito: fatto di neon che lasciano scivolare, diritta, una luce bianchissima, e di un soffitto altrettanto candido, a perdita d’occhio. Vede qualche gamba, qualche braccio, qualche frammento di persone che a risalire con lo sguardo mostra un’aria di curiosità. Capisce che si trova ancora in metropolitana, steso per terra, non lontano dai binari. Come sia arrivato lì, gli risulta misterioso. Una ragazza lo guarda più con attenzione che con curiosità, con occhi grandi e concentrati, fissi sul suo volto. È appoggiata a terra vicino a lui, in quella posizione apparentemente precaria in cui, gli hanno insegnato, i turchi giocano a scacchi, fumano e bevono il tè. “Allora?” fa lei, “Stai meglio?”. Le risposte che potrebbe darle comprendono tutto lo spettro delle possibilità, non sa quale scegliere. Sta indubbiamente meglio, ma non sta bene, ed essere lì, steso in un posto qualsiasi, con le persone che lo guardano come un animale ferito, lo getta nella stessa impotenza che l’ha fatto cadere a terra. “Sì”, dice perciò, “No”, dice ugualmente, “Non lo so”. I grandi occhi si sgranano ancora un poco, fino ad allagare la faccia. Lei, l’aria di chi è preparata a ogni difficoltà sembra averla messa su con sforzo, e non davvero. Però continua a tenerla impigliata alla faccia, e, a parte quel piccolo movimento degli occhi, il sorriso che le increspa la bocca è rassicurante e sincero. “Come ti senti?”, riprende, “sei debole, fai fatica ad alzarti?”. “Sì”, dice lui. “Allora restiamo un po’ qui”.
Le persone si stancano di starlo a guardare, ricominciano a diventare i vettori impazziti della fretta della mattinata. Lui sta lì, in uno stato intermedio, chiude gli occhi, li riapre e li socchiude, sta in silenzio, sta riposando, sta pensando ma anche ha la testa vuota. Mette a fuoco il volto della ragazza. Ha un colore diffuso, negli occhi, nei capelli, nella carnagione, che si può dire sia quello del miele. Ha le guance arrossate, il naso un po’ storto, e sopracciglia delicate e forti insieme, arcuate e dolci. Ha un’espressione che indica una possibilità di cura, nei suoi confronti, che gli pare mal riposta. Ha anche l’aria di chi ha tutto il tempo del mondo, ma lui sa che non è così, e allora si alza di scatto, ma ricade a terra, accompagnato dalle mani di lei. “Senti”, gli dice la ragazza, “mi sa che ti sei preso una gran paura. E mi sa che non ti passa finché qualcuno non ti dice che non è stato niente, che capita. Facciamo così: chiamo il 118. Intanto riposi un altro poco. Poi in ospedale fai una visita, ti spiegano tutto, e te ne vai più tranquillo. Che dici?”. La proposta della ragazza coinvolge a un tempo la sua più profonda ipocondria, che ha bisogno di medici, e l’altra faccia della sua ipocondria, che dei medici ha il terrore. Ma passare dal bianco asettico di quel soffitto a un bianco ancora più asettico ha su di lui un grande potere. Immagina medici che gli sorridono, medici che gli dicono “è una sciocchezza”, addirittura medici che gli danno un buffetto sulla guancia, a lui tornato improvvisamente il bambino che va a fare le vaccinazioni e poi la nonna gli compra un uovo di Pasqua così bello che ha una casetta di cartone intorno. “Sì”, dice lui, “va bene”. “Vengo con te se ti fa piacere”, dice lei. “Grazie”, dice lui. “Arturo, in ogni caso”, aggiunge porgendole la mano, mentre vengono trasportati a moderata velocità, senza allarme, nell’ospedale più vicino. “Io sono Anita”, sorride lei. Il sorriso di Arturo è anch’esso più rilassato, e gentile, perché ha moti di riguardo per quella gentilezza inusuale che gli viene donata. “Ora stai meglio”, fa lei, senza punti di domanda. “Sì”, dice lui, “è passato”. “Sono caduto come una pera, eh?” chiede lui. “Lungo disteso”. “Che stavi leggendo?”. “Quando?”. “In metro”. “Ah”, dice lei, “Stelzer, Franco Stelzer. Cosa diremo agli angeli”. Lei ha lo stupore dei bambini, era lontana dal punto in cui stava Arturo, e ha idea che il cerchio dei lettori tende a stringersi e a notare ogni simile, ma non si aspettava di essere stata vista. “Da lontano vedevo che era un Einaudi, edizione tascabile”, sorride lui, “e Stelzer non lo conosco, dovrei?”. “Sì, tantissimo. È la scrittura più bianca del mondo”.
Quando arrivano, Arturo non vorrebbe più essere in un ospedale. Prevale il terrore ancestrale dei medici e di tutto ciò che possa diagnosticargli qualcosa, anche se teme che sia stato un attacco d’ansia, o, come dicono, di panico. Lui il terrore non lo sopporta, allora sviene. Fa ogni controllo, dopo una breve attesa, senza presenza e partecipazione. Vuole soltanto andarsene da quel posto dallo strano odore e dalle pareti verdoline, non verdi. Vuole andare a casa, fare un bagno, dormire. Lei, assurdamente, è ancora lì quando finisce i controlli. La diagnosi, che non è davvero una diagnosi, è stata confermata: è stato solo un attacco di panico. “Andiamo”, dice lui, con la fretta di chi vuole scappare, “Andiamo”, ripete lei, che quella fretta la conosce.

Il viale dell’ospedale è alberato. È ormai alle spalle, e Arturo riprende colore. “Li conosci?”, fa lei indicando gli alberi alti e fratelli, “Sono pioppi”. “No”, dice lui, “sbaglio i nomi di tutte le piante”. “Allora nemmeno queste?” continua lei. “No”. “Sono ginestre. Sono arbusti fortissimi”. “Non come me”, dice lui. “Chi può dirlo”, fa Anita, “forse la tua di prima è stata proprio una prova di forza, hai resistito e combattuto. Che poi tu sia caduto non è una forma di resa. Ho idea che le persone che manifestano una sensibilità così accentuata da soffrirne siano in verità fortissime”. “Non lo so”, dice lui, “se sono forte mi maschero bene”. “Be’, forse ho sbagliato aggettivo. Sono arbusti molto resistenti, ecco. Al vento, alla pioggia, rispetto ai luoghi precari in cui spesso crescono”. “Allora sì”, fa lui, “quello lo sono anche io”, sorride. “Benissimo, allora va tutto bene”.

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