Il bagnino

La peluria che si scorgeva appena era il mio dettaglio preferito. Quando alzavano le braccia per prendere al volo il pallone, quando si allungavano come lucertole per acchiappare una lattina di coca cola ghiacciata. Peli biondi o neri come la notte.

Il petto era quasi sempre glabro, assomigliavano più a piccole stelle che vedi lontane nel cielo, costellazioni. I ragazzi si toccavano continuamente, e nonostante non ci fosse mai affettuosità – mancavano le carezze, gli abbracci sentiti, il poggiare la testa sulla spalla di un amico per conforto, davanti al sole cocente che va a dormire – emanavano erotismo. Pacche sulle spalle troppo forti, colpi sulle natiche durante una partita di calcio sulla sabbia, colpi ovunque. Si battono il cinque, giocano a braccio di ferro con gli ultimi bocconi di un panino farcito nel piatto, saltano sopra le spalle dei propri amici.
A mare si schizzano l’acqua addosso, sistemano il costume bagnato che si appiccica sul pube, si grattano i testicoli. Sgrullano la testa come leoni, le gocce d’acqua volano dappertutto.
Uno spettacolo che non finiva mai.
Mangiavano a bocca aperta, parlando, alzavano la voce; i più spavaldi – o annoiati – sputavano per terra. Mi facevano tenerezza quando sbirciavano le ragazze e anche le donne più grandi, le signorotte con l’abbronzatura cancerogena che stavano allo stabilimento da giugno a settembre. Le sbirciavano mentre si facevano la doccia, ridacchiavano, emettevano dei versi, a volte cercavano di spaventarle. Si piazzavano vicino le docce per guardarle meglio, per osservare le forme, i nei, i seni. Senza capirci molto. Troppo giovani per comprendere la natura di quelle emozioni.

Il lavoro era noioso, non è che facessi un granché. Ero finito a fare il bagnino perché mi servivano i soldi per la macchina, perché ero giovane, e perché non avevo niente di meglio da fare. Uscivo comunque con i miei amici, non ci eravamo allontanati. Frequentavamo lo stabilimento dove lavoravo per farci offrire da bere. Ci piaceva girovagare per la spiaggia buia, sederci sul molo con le gambe a penzoloni a dirci segreti e a cantare male vecchie canzoni. Mangiavamo la pizza da Franco, andavamo a prendere le frittelle alle giostre, se eravamo tanto sbronzi o tanto annoiati facevamo anche un giro sugli autoscontri, sul calci in culo.
La musica era frastornante, lanciavo sguardi incuriositi sotto le luci stroboscopiche.
Finivamo per intrufolarci in qualche festa in casa, di solito da Arturo. Aveva la villa più bella del litorale. Camminavamo per il lungo sentiero tra i pini, come delle volpi, fino ad arrivare al muro di casa sua. Ci piaceva scavalcarlo. Ci faceva sentire più forti di quello che eravamo.

Il minimarket era sempre aperto, la prima volta che entrai avevo dodici anni e volevo comprare le caramelle di lupo Alberto e una bottiglia di Fanta. Adesso di anni ne avevo venti, e quando entravo compravo acqua tonica, birra Moretti e vodka.
Dodici anni avevano anche i ragazzi che guardavo in spiaggia. Faceva parte del mio lavoro guardarli. Dovevo riprenderli se andavano troppo a largo, affittare loro il pedalò, dirgli di uscire dall’acqua quando c’era la bandiera rossa. Le ragazze ogni tanto venivamo ad attaccare bottone, mi facevano domande di cui conoscevano la risposta o che avevano una conclusione poco interessante.
Giocavano con i capelli mentre mi parlavano, avevano un sorriso malizioso, si voltavano a guardarmi una volta andate via. Una lasciò il suo numero su un bigliettino che appoggiò sulla mia sedia, con una bella conchiglia che lo proteggeva dal vento. Un’altra mi invitò a una festa in spiaggia a cui non andai. Di solito cercavo di includere i miei amici, affamati di sesso e di ragazze.
Gli piacevano quelle del posto, quelle del nord che stavano qui solo d’estate e poi sparivano nello smog padano, quelle straniere che non sarebbero mai più tornate. Gli piacevano tutte le ragazze.
Appena ricevevo un numero o un invito, lo giravo a uno dei miei amici. Si raggiungeva insieme la festa, la serata in discoteca, il falò. Una notte il mio amico Nicola disse a una ragazza che io ero influenzato, non potevo presentarmi all’appuntamento. Lei credette alle sue parole e gli propose di andare a cena insieme. Io ero al corrente di tutto. Ero contento per lui.
Certo, la pelle delle ragazze profumava di crema solare, avevano capelli luminosi e occhi iniettati di estasi. Parlavano sempre tra loro, avevano sempre qualcosa da dire, un dettaglio da aggiungere, una storia da analizzare per la decima volta. Il segno del costume a due pezzi era invitante, creava un contrasto pittoresco. Era facile essere attratto da loro. Non si poteva negare la loro bellezza. Era presente nel modo in cui si muovevano, in cui sussurravano nelle orecchie delle proprie amiche; come tiravano indietro la testa tra le risate, come correvano tra le onde. Camminavano per chilometri sulla battigia, se erano stanche non si notava. Nuotavano decise e con naturalezza. Si lanciavano dal molo, senza un briciolo di paura. Mangiavano gelati e ghiaccioli e frutta e patatine e insalate e focacce, come delle ninfe. Una pettinava i capelli umidi dell’amica, mentre un’altra ancora faceva un solitario, in un silenzio solenne, interrotto da qualche strofa di tormentone estivo sparato dalla cassa del bar.
Gli occhiali da sole erano abbinati al bikini, invece l’asciugamano che si portavano dietro era quello dell’infanzia, con una principessa Disney dal sorriso inquietante, con Lilo e Stitch. Mi faceva sorridere questo equilibrio. Non avevano paura di cosa gli altri potessero pensare di loro. Potevano fare discorsi politici con i vecchi ignoranti che facevano sudare le proprie natiche flaccide sulle sedie di plastica del bar, e poi tuffarsi in acqua come bambine.
Erano belle, ma non erano per me.

Un giorno ci fu un compleanno allo stabilimento. A volte la gente decideva festeggiarlo lì, in piccolo oppure in grande. Un signore ci chiese se poteva portare sessanta pizzette per i suoi sessant’anni. Una mamma ci chiese se avessimo una candelina per suo figlio che compiva un anno.
Quell’estate un ragazzino festeggiò il suo dodicesimo compleanno circondato da alcuni amici, i genitori (separati, ma il padre era venuto lì apposta per il figlio), e noi dello staff.
Era tutto perfetto: il mare piatto come una tavola, brillava. Il sole picchiava meno del solito grazie a un filo di vento che rinfrescava l’atmosfera. Avevamo attaccato dei palloncini verdi e gialli al bancone del bar. La musica non era quella della radio, ma di una playlist. Lo stabilimento era pieno di clienti, un giorno fortunato in cui avremmo fatto tanti soldi.
Eravamo una piccola famiglia. Erano tutti gentili con me, gli portavo rispetto, non facevo mai ritardo, ero educato. Così iniziarono presto a fidarsi di me, a volermi bene. Restavamo insieme a fumare sigarette a fine turno, a volte andavamo a bere da qualche parte. Offrivano da bere ai miei amici. Dicevano che ero uno dei migliori bagnini che avessero mai avuto. Era una bella estate.

I genitori avevano chiamato un animatore, e lo avevamo lasciato fare. Alcuni ragazzini si divertivano a seguirlo, a dare retta ai suoi giochi, altri sembravano distratti, in cerca di qualcosa di più movimentato.
Il festeggiato era uno di questi. Quando il gruppo si divise – le femmine dietro all’animatore, i maschi dietro al festeggiato – cominciarono a divertirsi tutti.

I ragazzini volevano suonare il mio fischietto, sedersi sulla mia sedia, salire sul pedalò, usare il mio binocolo.
Li lasciavo fare, gli raccontavo aneddoti spiritosi, gli feci fare un giro sul pedalò dicendo che non avrebbero dovuto pagare, regalo di compleanno.
Erano più felici che mai, si lanciavano dal pedalò per tuffarsi nell’acqua limpida, ridevano, nacque una gara di tuffi, poi una battaglia. Due tenevano un ragazzino sulle proprie spalle e ognuno dei due seduti sulle spalle doveva cercare in tutti i modi di buttare giù l’altro.
I peli biondi che diventavano bianchi sotto il sole, le ginocchia sbucciate, vissute, le lentiggini, il neo accanto all’ombelico all’infuori del festeggiato, i capelli chiari, le mani magre, il petto timido che cercava di farsi grande. Sembrava più grande e più piccolo allo stesso tempo. Stava vincendo. Prima pensai che lo facevano vincere apposta, era il suo compleanno dopotutto. Invece riuscì a vincere anche contro il ragazzino più grosso e forzuto di tutti, cadde in acqua dopo una battaglia breve ma intensa. Il festeggiato si baciò le braccia posando come un bodybuilder e si mise a ridere.

Ci fu la torta, i ragazzini la divorarono, bevvi una birra fresca. Il mio capo mi raccontava una storia divertente che non riuscivo a seguire, sorridevo di riflesso, la birra mi stava facendo effetto in tempi record, colpa del caldo e dell’eccitazione.
Sudavo, il mio capo mi offrì una sigaretta, mi sentii più lucido invece di andare fuori di testa. Andai a bere dell’acqua del rubinetto in bagno, mi sciacquai il viso. Feci un respiro profondo e sorrisi placidamente. Andava tutto bene.
Uscito dal bagno me lo ritrovai davanti. Il festeggiato, il ragazzino più forte di tutti, il biondino dagli occhi castani.
Disse qualcosa che non registrai, doveva lavarsi le mani, feci per spostarmi ma entrò senza farmi uscire dal bagno.
L’aria sapeva di salsedine, ma anche di chiuso e di pipì. Provai a pensare a qualsiasi altra cosa. Alle ragazze che ci provavano con me, ai ragazzi che ci avevano provato con me, ai corpi di quelli della mia età. Niente stava aiutando. Optai per pensieri oscuri, che magari mi avrebbero portato lontano da dove voleva andare la mia mente. Quella volta che rimasi chiuso nel ripostiglio della scuola a sette anni, la paura del buio e la claustrofobia che ne risultò in seguito, gli occhi di ghiaccio della terapeuta che mi voleva togliere queste paure. Ripensai alle punizioni che ricevevo a casa, le ore passate a lucidare il pavimento con uno spazzolino, le mie lacrime che cadevano sulle mattonelle. Pensai ancora più forte, più intensamente. Vidi le mani di mio zio che mi stringevano i polsi, sentivo i suoi sospiri addosso al collo, le parole dette e non dette, le mie mutande sporche di sangue.
Subito dopo vennero a galla bei pensieri, per salvarmi. La libertà che provavo mentre disegnavo e coloravo, la mamma che mi stringeva prima di dormire e mi cantava una canzone in inglese, i pioppi nella via di casa, i giri in macchina della domenica.
Il festeggiato non si stava più lavando le mani, si stava sistemando i capelli allo specchio. Gli dissi che lo avrei aiutato io. Sorrise compiaciuto. Lo feci, una, due, tre volte. Dallo stabilimento si sentivano le grida dei ragazzini, la musica alta, le risate.
Qui era diverso, era come stare dentro a una conchiglia, senti solo il rumore del mare.
Gli massaggiai le spalle, gli dissi che era la persona più forte che avessi conosciuto, che avrebbe potuto fare pugilato, o karate. Amava i complimenti. Mi chiese se conoscessi delle mosse di arti marziali. Gli dissi che non le conoscevo, ma che sapevo invece di un antico metodo di rilassamento per concentrarsi al meglio. Bisognava respirare e lasciarsi andare, chiudere gli occhi. Una specie di esercizio di respirazione. Meditazione. Una connessione di energie. Accettò.
Mentre lui chiudeva gli occhi, io chiudevo a chiave la porticina del bagno, e non pensavo più a niente.

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