La masaneta

“Sì ma i granchi non possono vivere in montagna”.
“Volevo solo spiegarti un verso di Dante!”
La voce che le esce spacca la falda ed eviscera le radici sotto la pietra.

“Prima c’era il ruscello, prima della frana a causa dell’alluvione”, le dice una decina di minuti dopo.
Non si commuove. È una frase limpida, comunque.
Sotto la salita la prova di una mitragliatrice incide la terra umida. Gli scoppi imprimono un moto di accelerazione a quello scambio di battute faticoso.
Pensa che due isole che si incontrano senza un piano, diventano un paio di coglioni.
Gli scoppi arrivano a grappoli miseri sotto il pendio con la terra sbiadita e secca. Per lei quella tipologia di terra, in quel grigio sul crinale, sono capelli di scopa, se non c’è la neve sopra né il sole. Le ricordano quella foto in Veneto con la famiglia tutta accovacciata a mo’ di clan, o di pellicola, le pigne allungate nel piccolo palmo di sua sorella. Due pigne. Era una bella foto.
Tra la montagna e il mare la stagione deve essere chiara. Il doppio compromesso diventa una croce. In altre parole, non vuole soddisfare il loro sesso per spiegargli che non è quello il motivo per cui aveva deciso di andarlo a trovare a Pasqua. Non sa qual è.

Salendo da Malnisio alla Casera Giais, ha man mano più voglia di respirare e ripetere un vomito di versi a voce alta. Una cascata che altrimenti le va addosso. Ciò che teme è la nausea.
La faccia di lui si fa più paonazza a ogni curva. Il sentiero torna fluido in prossimità di una radura coperta di foglie rosso scure, scivolose e bene aderenti nell’insieme. Compongono un pavimento irlandese.
C’è una porta di rame sospesa e arrugginita, interrata. Solo lei sta pensando alle porte della percezione?
Nella radura, mentre gli chiede cos’è una foglia a cinque punte che non ha mai visto e lui le risponde forse menta, e lei gli inizia a dire del numero aureo di Fibonacci, senza ricordarsi bene la storia della progressione, lui la invita a entrare con un gesto, premendo la maniglia. Apre l’uscio di ruggine in mezzo allo spiazzo di foglie rosse e magnolie.
“È insomma il numero, la costante, che si ritrova anche nelle corolle di alcuni fiori e foglie”.
Lei entra e passa oltre.
“E credo anche nei giri di alcuni fenomeni, tipo l’uragano”, continua semidotta.
“Stai bene? le chiede al bivio tra il segnale del CAI e quello blu e giallo del trekking locale che ricorda il Portogallo, Sintra, un mare ospitale.

Il rimasuglio dell’urlo, dopo la radura, è attutito da scoppi minori. La nebbia rimane fitta.
Prova anche lei a cercare superfici, intorno, che lo assorbano del tutto. Il muschio è troppo secco e la caligine a ridosso della cima ancora bassa è una via di mezzo, buona a stroncarne qualche decibel.
Per il resto della salita fino alla casera, riesce finalmente a distinguere il suo fiato rotto. È indietro rispetto a lui di qualche passo. Quell’energia cinetica le sposta il femore destro. Lì dove si unisce al bacino, dove ha l’ovaio policistico che raccoglie più acqua e più aria tossica.

Salendo ancora, il pensiero le si intorba di poesia ricordata peggio. Di moniti e accette. Doveva tagliare, tagliare corto, darsela a gambe e subito.
“Senti”.
Si ferma dove l’imbocco della strada di ghiaia si spezza.
“Io salgo dal bosco, qui il blu e il giallo indicano il percorso dei camminatori locali, come ti ho detto. Vai dritto e segui la strada. Ci vediamo in cima”.
È rosso sulle guance così glabre. Aspre e agri. Calabre e friulane.
“Tu sei un gabbiano e vuoi essere un falco. Deciditi”.

La musa dei boschi lo sa, se ti si inselvatichisce la lingua, diventi un muso con la rogna. Buono a raspare nei cesti di muschio e merda, continua tra sé mentre gli si allontana.
Manca la giuntura tra la ricezione del segnale sonoro e il tempo del suo assorbimento, quando sei ad appena 800 metri di altezza, da queste parti. L’hanno capito grazie ai cacciabombardieri. Dipende da un dettaglio della morfologia del terreno di cui si sono approfittati i tedeschi nella grande guerra.
L’ha letto in uno specchietto di guida alla biblioteca civica. Il narratore è uno scrittore di aforismi e detti popolari; “aspirante poeta”, dice la nota. Sarà anche folklore, batte forte i piedi sudati nelle scarpe Decathlon, sopra i lunghi metri di ghiaia più dolce; ma se qualcuno l’ha scritto deve averlo provato.
Manca la giuntura tra il messaggio e il tempo della decodifica.
Se qualcuno l’ha scritto deve averlo provato cazzo.

E scopa di più! Le aveva detto la sera prima, dopo cena. E mangia, se hai voglia, quel cioccolato!
“Sì, lo mangio. Sì, ho voglia di scopare. Prima però,” gli aveva risposto con le ginocchia al mento, gli occhi liquefatti e la schiena seghettata dai mattoni del camino, “prima ti stupro. Poi ti spiego perché non posso spiegarti l’incomunicabilità”.
Aveva proseguito, ridendo dal margine sinistro delle labbra.
“Tu non puoi capire”.
Lui rideva dal margine destro.
Non sai neanche che cosa non ti sto dicendo per non disimparare questa lingua bruciata dalle ciminiere del Quirinale.
“Il vento è calmo quassù, vero? Da queste parti intendo”.
“C’era un cielo magnifico oggi in bici”, aveva risposto lui.
“Grazie della compagnia”.

La casera, quando è più vicino e sicuro che lei sia già lì da una mezz’ora, somiglia alla chiesa in cui vorrebbe chiederle di sposarlo per mettere in pace le voci del paese. Sospettano che si approfitti della sua ospitalità, in questa fase lunare in cui bisogna rinnovare le colture, dissodare il terreno. La terra diventa asessuata. Sospettano che l’ospite donna che arriva si prenda gioco del giogo ovvero del crocifisso sul letto. Non è vero. Non lo sospettano. Sono solo nelle loro case, sono solo nelle loro case dopo Pasqua, più felici di lei, e di lui. Qualcuno rifà il tetto, una gatta bianca marrone e nera si aggira tra le grate.
La casera, appena il pensiero le si lubrifica, somiglia alla lastra di una filmografia, alla diapositiva in cui sta accanto a un uomo con la barba ispida e scura e gli occhi verdi, mangiano formaggio bruciato vicino al camino, e fuori bussa la neve.
Questo qui del film ha un orgasmo tiepido che viene dopo il suo. È un uomo di montagna e sale. Le sue mani sono appena imbrunite dal tabacco che si rolla, poco dopo, con gli occhi più fondenti nei suoi.
La casera è il punto dove l’esploratrice in lei sale anche da sola, quando la stagione delle piogge declina dal freddo-umido all’umido variabile. Mangia dei crackers integrali, una mela, beve un infuso caldissimo che sa di caffè dell’Ecuador. Guarda quello che c’è intorno. Si prende un tempo di ipnosi fissando la luce senza fissare niente. Conclude che il sole in basso fa male, qui. Si sincronizza all’umore della gente. La centrale idroelettrica Pitter serve a purificarne l’incastro pericoloso. L’aria e l’acqua buone che il posto riserva fanno sì che i due orologi non si incollino: il ritmo dell’umore e del veleno, con quello dell’elio.

“Non sei tu”, gli dice quando arriva e si siede lento accanto a lei sulla panca. “Sono passate due ore”.
È meno ansimante di quel che si aspettava. È più uomo.
“Ti voglio bene, però”.
“Beh, dai!”, la canzona. “Ce l’hai fatta, nonostante quel culo!”
Ride.
Lei scavalca il muro basso di mattoni. Respira un uscio di piante selvatiche. Fa pipì. Arriva un freddo.
Torna sulla panca e prende i crackers dallo zaino. Gira il picciolo della mela verde nello scottex e lo stacca. Lui appoggia il coltellino mettendo a lato la pera Coscia. Si sfila il piumino arancione e glielo allunga.

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