Il caradrio

Il Fisiologo ha detto del caradrio che vive nelle corti dei re. Per questo ho preso un aereo e sono andato in Danimarca: lì c’era ancora una famiglia reale e il palazzo di Fredensborg mi pareva un buon posto in cui cercare.

Ma era luglio, così il re, la regina e i loro figli non c’erano; allora ho pensato che fosse sciocco aver fatto tanta strada. In compenso, data l’assenza dei regnanti, si poteva visitare il giardino anche nell’area più vicina agli edifici, dove sorge la limonaia.
Il Fisiologo non ha detto dove il caradrio si trovi presso le corti dei re, però io, pensando ai suoi occhi rotondi e malinconici, al becco sottile e alle piume candide, l’avevo sempre immaginato proprio in una limonaia. Nella mia fantasia, il giallo dei limoni stemperava l’atteggiamento austero del pennuto.

Prima che partissi, l’oncologo mi aveva detto che il caradrio non esiste. Non butti il suo tempo, si limiti a non lasciare solo suo padre. Ma il dottore non conosce i bestiari; per esempio non sa, anche se crede di sapere tutto, che il caradrio defeca continuamente, e che le sue feci curano la cataratta.
In mezzo al vialetto, fra le piante cariche di limoni che avevano iniziato a virare dal verdolino a un giallo acceso, c’era un vecchio danese che ciondolava dentro una tuta da giardiniere troppo larga. Più si avvicinava, più la sua faccia assomigliava a una prugna secca.
I’m here for the charadrius, gli ho detto. For my father, who may die.
I suoi occhi cerulei hanno brillato per un istante. Le sue guance già pallide sono diventate quasi trasparenti e il suo corpo rattrappito si è come ristretto nella tuta. Pareva lui stesso un uccello, una bestiola decrepita, e quando ha sollevato il mento per indicarmi un boschetto di faggi ho creduto che da un momento all’altro si sarebbe messo a garrire.
L’ho ringraziato con un cenno del capo e ho fatto per andarmene. Mentre mi voltavo, il vecchio è schizzato via con un’agilità del tutto incongrua. Ho esitato un istante, poi l’ho cercato con lo sguardo: si era tuffato tra i limoni e ne aveva addentato uno senza nemmeno coglierlo dal ramo. Succhiava con avidità, il volto contratto in un’espressione di piacere.
Platone ha detto del caradrio che sempre s’ingozza e che per questo evacua in ogni momento. È il vizio incarnato, l’immagine vivente dell’intemperanza. Né Platone né il Fisiologo hanno detto che il caradrio può cambiare forma; eppure lo strano comportamento del vecchio, accompagnato dal brontolio insistente che risuonava nella sua pancia, non lasciava spazio a dubbi.
Mi sono lanciato su di lui e l’ho preso per il collo. Il vecchio si è dimenato per liberarsi, ma io ho rinsaldato la presa. La tuta da giardiniere è caduta a terra e c’è stato un goffo mulinare di braccia, che era in realtà un debole frullio d’ali. Mi sono ritrovato in mano la gola tiepida e piumosa di un uccello. E i suoi occhi, quegli occhi umidi e circolari, mi fissavano smarriti, quasi che avessero dimenticato il loro potere.
Il Fisiologo ha detto del caradrio che sa riconoscere un moribondo. Posto di fronte al suo letto, se distoglie lo sguardo ne sentenzia la fine. Se invece scruta l’infermo dritto nelle pupille, senza girarsi altrove, significa che quello guarirà, e sarà proprio il caradrio a risanarlo.
Perciò ero lì e dunque, senza mollare il collo del pennuto, ma stando attento a non stringere troppo, mi sono tolto lo zaino da una spalla e ce l’ho ficcato dentro. Il caradrio ha emesso un verso sgraziato, a metà fra il grido di un gabbiano e lo starnazzio di un’anatra, e si è afflosciato senza più opporre resistenza. Il tempo di guardarmi intorno per essere sicuro che nessuno avesse visto o sentito – la limonaia era stranamente deserta – e l’uccello già dormiva sul fondo dello zaino.

Doveva essere molto stanco, perché niente ha potuto riscuoterlo finché non sono arrivato a Kastrup, l’aeroporto di Copenhagen. Credo che a svegliarlo sia stato il mio andirivieni nervoso subito prima dei controlli di sicurezza. Mi chiedevo come avrei fatto a superare lo scanner senza che mi sequestrassero lo zaino; i raggi x avrebbero tratteggiato sul monitor lo scheletro sottile del caradrio e allora l’addetto, aggrottando le sopracciglia, mi avrebbe puntato l’indice contro. Per lui – per tutti loro – sarei stato un contrabbandiere di animali esotici, o magari il lacchè di un guaritore cinese in cerca di un ingrediente speciale. A poco sarebbe valso spiegargli che ero lì per mio padre, e che una volta risolto tutto avrei riportato io stesso l’uccello a Fredensborg.
Senza avere ancora un piano mi sono accodato agli altri passeggeri. Avanzavamo in fretta, stretti in mezzo ai cordoncini che delimitavano il percorso. Di quando in quando il caradrio sussultava contro la mia schiena e dall’interno dello zaino mi assestava una beccata incerta, che mi faceva pensare a qualcuno che bussi più che a un prigioniero intenzionato a scappare. Tuttavia le sue rimostranze, benché modeste, rendevano l’impresa ancora più difficile.
Ho continuato ad avanzare finché non mi sono trovato davanti al nastro trasportatore. Papà, ho immaginato di dire a mio padre, non posso salvarti: si sono presi il caradrio. Mi sono tolto gli spallacci e ho deposto lo zaino nella cassetta di plastica. Prima di spingerla sul nastro, in direzione di un epilogo miserabile, ho deciso di sganciare le fibbie per dare un’ultima occhiata al pennuto. Una parte di me sperava che balzasse fuori dallo zaino sbattendo le ali bianchissime, grandi come quelle di un tordo, e prendesse quota fin sopra il metal detector per planare dall’altra parte. Forse a quel punto, nello stupore generale, sarei riuscito a inventarmi qualcosa.
Invece il caradrio è rimasto immobile nella penombra, col becco all’insù e gli occhietti malinconici sgranati su di me. Qualcosa si è sciolto nelle profondità del mio stomaco. All’inizio ho provato per l’animale, strappato al suo giardino e trascinato fin lì, un moto d’affetto e di gratitudine. Ma il pennuto era pietrificato in un’attesa passiva, e ben presto la sua indolenza ha iniziato a darmi sui nervi. Avevo bisogno di lui, ma lui non mi offriva soluzioni.
Qualcuno da dietro mi ha parlato; dal tono della voce ho creduto che mi stesse esortando a fare in fretta. Mi sono chinato sullo zaino, come per cercare qualcosa all’interno, poi, con un gesto fulmineo, ho afferrato il caradrio e me lo sono nascosto sotto la maglietta. Le zampine artigliate si sono aggrappate alla mia pancia e mi hanno graffiato la pelle, ma non mi sono lamentato. Il contatto con le piume era gradevole, inaspettatamente familiare.
Ho affidato la cassetta, con dentro lo zaino, l’orologio e il cellulare, al nastro trasportatore, e mi sono avviato verso il metal detector con un braccio appena piegato sull’elastico della felpa, per evitare che il caradrio scivolasse fuori. Al di là del varco una donnetta tarchiata, dall’aspetto decisamente poco nordico, mi studiava grattandosi il naso. Ho fatto un respiro profondo e sono passato. Nessun allarme. Nessuna perquisizione.
Ho dovuto aspettare al gate per più di un’ora. Chiudermi nel bagno avrebbe potuto attirare su di me dei sospetti, così camminavo avanti e indietro, poi mi sedevo in un posto isolato, infine l’ansia mi consumava il respiro e ricominciavo a camminare. Per tutto il tempo, nonostante non abbia mai accennato a tirarlo fuori dai miei indumenti, il caradrio non si è mosso. Forse era avvezzo al camuffamento e all’oblio perché, dopo essere stato ignorato tanto a lungo, non si sentiva più in diritto di esistere: nessuno scriveva di lui ormai da secoli. Oppure può darsi che, stufo di essere trascinato ogni volta al cospetto dei regnanti moribondi, che insieme bramavano le sue profezie e ne erano terrorizzati, avesse scelto di ritirarsi nell’ombra, rinunciando ai suoi poteri di oracolo e taumaturgo, e perciò stesse bene nella mia maglietta, distante dagli sguardi indiscreti.
È rimasto là sotto per tutto il viaggio. In aereo mi sono chiesto se avesse fame: la sua ingordigia non veniva soddisfatta ormai da ore. Certo, esisteva il rischio che, se gli avessi dato del cibo, mi sarei ritrovato con la pancia ricoperta di guano, ma la priorità era che il caradrio giungesse sano e salvo a casa di mio padre. Che male potevano farmi le sue feci miracolose?
Quando la hostess, una valchiria dal sorriso adamantino, è passata col carrello, ho comprato un pacchetto di cracker. Poi ho finto di mangiarli, ma in realtà li portavo alla bocca e, poche briciole alla volta, li facevo cadere dentro al colletto, in modo che arrivassero al pennuto. I suoi movimenti erano minimi: si aggiustava con calma, forse orientandosi per ricevere il cibo dritto in bocca, come un pullo in attesa che la madre gli desse il prossimo boccone. Era strano, ma mi sentivo il padre dell’animale che avrebbe salvato mio padre. Lo nutrivo, e lui mi avrebbe restituito il favore.

Siamo atterrati a Roma intorno alle tre del pomeriggio. Mentre il tassista ci portava a Trastevere il caradrio ha iniziato ad agitarsi. Forse era il mio sudore a disturbarlo: poco prima, una volta uscito dall’aeroporto di Fiumicino, mi ero ritrovato con la maglietta fradicia; all’aperto, senza il sollievo dell’aria condizionata, la felpa mi pesava addosso come un’armatura. Ma ormai ce l’avevamo quasi fatta e non potevo rischiare che qualcosa andasse storto. Perciò, nell’abitacolo del taxi, mi sono premurato che la maglia restasse ben stretta contro il mio inguine, e il caradrio nascosto.
A casa, al nostro arrivo, c’era Mercedes, la badante portoricana. È stato facile convincerla a prendersi qualche ora libera. Dapprima sembrava scandalizzata, ma fingeva. Quando è uscita ho chiuso a chiave il portone dall’interno e sono andato in camera di mio padre.
Tra la finestra spalancata e il letto antidecubito, l’asta metallica a cui era appesa la flebo luccicava nel sole. Mi ha fatto venire in mente un trespolo per pappagalli, così ho pensato che fosse il posto ideale per il caradrio. Mi sono tolto la felpa e il pennuto è scivolato fuori dalla t-shirt. Ha sbattuto le ali per non precipitare sul pavimento e subito, quasi che mi avesse letto nel pensiero, è andato a posarsi sul gancio dell’asta, sopra la sacca della fisiologica.
Papà, ho detto, svegliati. Gli ho pizzicato un alluce da sopra il lenzuolo e lui ha sollevato appena le palpebre. Ero in apnea, con la gola serrata e un metronomo impazzito al posto del cuore.
Il caradrio si è voltato verso mio padre, puntandogli contro il becco sottile. Ha incrociato il suo sguardo – gli occhi umidi dell’animale in quelli aridi di papà – e io ho creduto che il responso fosse positivo, che tutto sarebbe andato per il meglio; ma poi, con una lentezza innaturale, l’uccello si è girato verso l’armadio e ha incassato la testa fra le spalle.
La vista mi si è annebbiata. Mi sono avvicinato a lui e l’ho preso per il collo. Ho stretto forte, con tutta la forza che avevo, finché il patetico starnazzio dell’uccellaccio non si è spento in un crac.
Philippe de Thaon ha scritto del caradrio che il midollo del suo femore può curare la cecità. Perciò avevo pensato che le sue ossa – tutte le sue ossa insieme – potessero ancora salvare mio padre. Ma quando, dopo aver eviscerato l’uccello, ho spezzato in due il femore, l’ho scoperto vuoto.
Mio padre non ha voluto il brodo. Mi ha osservato confuso e si è rimesso a dormire.
Io mastico un pezzo di carne: ha lo stesso sapore del pollo, e non va giù.

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