La magrezza è un totalitarismo

Caddi nei miei vestiti, fu la caduta del muro. Andai dall’altra parte, aprii il cassetto di Emilia e presi i suoi jeans. Indossarli fu costruire un altro muro, perché la magrezza è un totalitarismo.

È severamente vietato non entrare più nei jeans di Emilia, sbottonarli per respirare, accorgersi che non sono ideali.

All’inizio credetti solo di trovarmi dalla parte giusta del muro. Gettai sul pavimento i vecchi vestiti, macerie di stoffa a fiori che finalmente calpestai. I miei fianchi li avevano fatti soffrire, cambiare specie, deformati come piante carnivore. Quando finii di calpestarli, rimasero intatti. Più ho provato a coprirlo più il mio corpo ha cercato spazio, sfregiava gli indumenti che sceglievo per lui. Il velcro strideva, il bottone saltava, se cucivo una molla nel tessuto domavo la sua furia. Svergognato in ogni sua lotta, quello era un corpo che parlava. La magrezza è una bocca cucita. Fissai i vecchi pantaloni blu sul pavimento, erano tutti consumati. Quando camminavo le cosce si mordevano, il tessuto arbitrava la loro violenza. Il blu affaticato, sbiadito, spirato. Tra le cosce era agosto, un calore feroce, nessuno sapeva, nessuno mi toccava, gli uomini erano come i vestiti, il mio corpo non li voleva.

La mia vita si stava consumando come i pantaloni. Senza calore, senza andare da nessuna parte. Così del mio corpo diventai il sottotacco perduto, mi staccai e lui rimase un piede scalzo e pulito. Non camminò più. Oggi coscia est non sfrega coscia ovest. Le cosce sono cosce, i fianchi fianchi, la pancia pancia. Nomi oggettivi che sembrano grassi per parti del corpo rimpicciolite.

Continuai a fissare i pantaloni e pensai a cosa non avrebbero potuto fare ai jeans di Emilia. Erano cento volte più grandi, li avrebbero ingoiati, risucchiati senza masticare, sputato la cerniera come la lisca di un pesce. La magrezza mi ha tolto la fame così non ho ragione per farle la guerra. Guarda senza come stai bene. La magrezza mi ha tolto il cervello, nello stomaco ho un messaggio registrato, una segreteria telefonica che continua a ripartire, oggi è un monosillabo. Sento lo scatto, ma non riesco a pronunciare niente prima del no. Ogni volta continuo a rimandare. Mentre io sono sola da questo lato del muro, dall’altro lato ci sono tutti gli altri. Si divertono, escono, vivono sopra il suono ripetuto del mio messaggio registrato. Io, voce fuoricampo che rimbomba dentro i jeans di Emilia. Quando li infilai la prima volta sentii il tessuto fresco punire il rossore, i segni rotondi che mi aveva lasciato, cerchietti disattivi nella parte interna delle cosce dove si accendeva il fuoco. Puzzavo di gambe bruciate, i vestiti gonfi di fumo, per tutte le volte che li ho indossati non ho mai profumato di fiori. Il cotone dei suoi jeans era un alito alla menta, fu nuovo sentire il freddo nelle ossa. Fu nuovo avere ossa. Scrissi agli altri: volevo uscire, farle vedere, volevo testimoni. Trascorremmo tutto il giorno fuori, ma dei miei amici nessuno disse ossa.

“Sembri debole.”
“Pallida e debole.”

Loro erano vividi, magri con la carne. Il cuore mi finì in un ginocchio. Tremò prima su se stesso e poi contro l’altro, riconobbi il suo singhiozzo, il pianto. Non ero magra come gli altri, ero pallida e debole, malata. Sentii i jeans di Emilia saldarsi alle mie anche, il bacino sottovuoto, la morsa, i jeans di Emilia servi alleati del totalitarismo. Sbattei contro il muro. Fu lì che mi accorsi che se n’era alzato un altro. Eravamo sei, insieme a me facevamo cinque persone e mezzo. Le uniche donne eravamo io e Sara, Sara aveva ogni parte al suo posto, io guardai le mie caviglie: erano polsi. Polsi legati. Lei magra, io sottosopra. Studiai il suo corpo tutto il giorno, conoscevo già il suo corpo, ha un neo sul gluteo destro, un taglio sotto il mento, la scoliosi.

Ai ragazzi venne fame, vollero andare al chiosco dei panini. C’infilammo tra le auto parcheggiate in doppia fila, un corridoio di lamiere e finestrini che percorsi dietro Sara e Milgram. Sara tirava dritto, io guardavo i nostri corpi muoversi sui vetri. Milgram aveva una testa enorme. Riflessa, la visiera del suo capello sembrava un coltellino svizzero puntato nella mia direzione. Intanto camminare ci stava già tagliando, sparivamo da un finestrino e comparivamo su un altro: alla fine del corridoio loro due si aggiustarono, io sono ancora un ritaglio irregolare.

Unimmo due tavoli al chiosco dei panini. Uno dei due traballava, Milgram piegò un menu in quattro e ce lo mise sotto. Nel sedermi, un’anca mi punse il braccio. Era la magrezza che mi avvertiva, ma neanche questo all’inizio mi fu chiaro. Le mie anche erano i suoi pungiglioni. Mi abbandonai sulla sedia mentre Milgram prese a urlare i nomi dei panini, era l’unico che al liceo sapeva il menu a memoria. Nessuno sentiva che anch’io gridavo, gridavo perché potevo mangiare. Dimagrire non fu l’autorizzazione, ma ottenere la firma che da anni non riuscivo ad avere. Milgram urlava L’italiano, il mio stomaco L’ITALIANOOO. Fino a che SAN DANIELEEE GARIBALDINOOO AMERICANOOO non coprirono la sua voce. Mi spolmonai più di Milgram, lui come sempre, io con esplosione. Il suo era un esercizio di memoria, la mia era stata attesa. Lui strizzava gli occhi, io avevo gli organi strizzati dai digiuni. Desiderai più di ogni altra cosa un momento in cui nessuno mi sentisse, essere ovvia per essere libera, avere la tranquillità di un corpo magro, stare tra i magri, nominare un panino a caso. Senza farlo apposta, io e Sara ordinammo lo stesso. Dentro i jeans di Emilia una goccia di sudore tracciò una fronte dal mio sedere al calcagno. Questo mi diede modo di avvertire la tensione, qualcosa che tra me e Sara non era mai accaduta. Presi l’altro menu e lo misi tra di noi, sperando di non traballare.

“Hai il bicchiere capovolto.”

Proposi un brindisi per recuperare, capovolgere la situazione. Brindai alle mie ossa senza farmi sentire. Le mie labbra toccarono il vino senza ingoiarlo, rimasero a bagno, le allontanai quando lo fecero anche gli altri, dopo sorsi di nove secondi. Arrivarono i Garibaldini, i Mediterranei, Il chiosco consiglia, infine il mio. Lo guardavo come un cibo esotico, Sara se ne accorse.

“Da quanto non mangi un panino?”

Era una scelta fuori dal regime, dunque la magrezza mi punì. Non dovevo fidarmi della fame, davanti a me c’era il diverso, dovevo obbedire alle ossa, rispedirlo indietro. La goccia di sudore piangeva, il ginocchio pompava il sangue, ero arrabbiata per quella firma, ero pallida e debole. Bevvi molta acqua, fu come mangiare. Sara prese il suo panino con le mani e quando lo morse il diverso tirò fuori la lingua e mi sbeffeggiò. Il filo di grasso cadde penzolante dal panino, lo credetti sconfitto, schiantato contro il muro del regime, Sara lo raccolse e lui morì per una giusta causa.

“Attenta, scotta.”

Sara non sospettava che non avrei mangiato, mi disse di soffiare sul panino, m’illuse che non era cambiato niente. Gli altri sembravano uccelli, beccavano i panini, ripetevano l’azione e la appiattivano. Per loro il cibo era sonno, per me era sempre stato avere sonno, il pensiero che finalmente avrei dormito. Strappai un pezzo di mollica, mi ci aggrappai, la frana di briciole fu la canna di un fucile che la magrezza mi puntò contro. Scondito era il colore del regime, non potei mangiare altro che un po’ di pane asciutto. Ero così lenta, così finta, trasformai la fame in noia. Fingevo di mettere da parte tutto quello che scartavo. Il prosciutto più tardi, il formaggio domani, tutte speranze che si depositavano nello stomaco già morte.

“Questi non li mangi?”

Il menu piegato in quattro tra me e Sara non si mosse. Ci lessi Le nostre proposte come se potessi cercare una risposta lì. Feci una smorfia. Mentre il labbro superiore cadeva, sentii quello inferiore raccoglierlo al volo. Come fece il braccio di Milgram, che al momento giusto prese dal mio piatto prosciutto e formaggio e arrotolandoseli in bocca chiese: posso? Non seppi recitare. Sara protestò. Il menu si era aperto in due, dondolava. La magrezza era pronta ad attaccarla, i jeans di Emilia a strangolarla, il bottone a saltare, i jeans volevano appallottolarsi nella sua bocca. Dovetti afferrare i passanti per non restare nuda. Nel farlo, Sara mi vide l’osso del fianco. Sembrò tagliarla. La magrezza aveva il privilegio di sedere a cavalcioni sul muro per esercitare il suo controllo su tutti e due i lati. Puntò Sara e io, pallida e debole, stetti a guardare. Anche sanguinando, Sara rispose all’attacco: staccò metà del suo panino e me lo porse. La segreteria telefonica scattò proprio quando diedi il primo morso, sul nastro magnetico rimarrà per sempre un breve intervallo smagnetizzato. Come con i bambini, Sara non smise di guardarmi fino a quando non mangiai tutto. Non ingoiavo, il cibo cadeva a peso morto da solo. Gli altri non si accorsero di niente, neanche Milgram, alto e magro come un chiodo, che quando si saziò sbottonò i pantaloni. Rimossi tutta la tensione e cercai gli occhi di Sara.

“Guarda che è normale.”
Milgram aveva sulla pelle il segno del bottone.
“Ha le piaghe!”
Allora anche Sara sbottonò i jeans, aveva le piaghe pure lei. Mi guardò dispiaciuta.
“Ti sei rovinata.”
E non mi rivolse più la parola.

Quando tornai a casa mi disfai subito dei jeans di Emilia, ma il giorno dopo, appena mi svegliai, la prima cosa che feci fu capire se si abbottonavano. Il giorno dopo è diventato tutte le mattine.


Oggi ho aperto il cassetto e non ho trovato i jeans. L’ho richiuso, chiuso gli occhi, riaperto gli occhi, il cassetto, e ho sentito il vuoto. Siccome ho trattenuto il respiro come quando li abbottono, ho pensato di averli già addosso. Ho abbassato la testa e non li ho visti, ho visto il vuoto. Due fili di pelle nuda come i fili di una ragnatela che non hanno forza, solo un po’ di pelle per dare dignità alle ossa. Senza i jeans di Emilia non saprò più se sono magra.
Sono tornata a letto, stesa su un fianco, per appassire. Dormirò, senza fame non posso fare sciopero della fame. In quel momento è arrivata Sara.

“C’è una sorpresa.”

Dietro di lei Emilia. Mastica un chewing-gum, ha le treccine, indossa i jeans. Il fianco mi pugnala, lei si avvicina, Sara resta sull’uscio della porta, ci appoggia una mano. Le lentiggini che sanno di sapone si mescolano al suo alito alla menta, viene dalla bocca, mi evapora sul viso, è come i suoi jeans. Mentre si china di più per darmi un bacio, dallo zaino le cadono i libri di scuola. Uno mi finisce addosso e fa crollare il muro.

“Scusa mamma.”

Le lentiggini non la fanno arrossire, il suo imbarazzo stemperato è la somma di due colori mischiati. Scusami tu se ho indossato i tuoi jeans senza permesso, la magrezza è un totalitarismo. Ha raccolto i libri, ho guardato Sara, Sara ha dimenticato che non ci siamo più parlate, la malattia fa tornare le persone, le aiuta a parlarsi. Si fanno da parte quando arriva l’infermiera, diventano prosciutto e formaggio.

“Tornate anche domani?”

Mi dicono di sì e se ne vanno. Io mi siedo, respiro, domani viene Emilia.
La colazione sale lenta nel sondino, mangiare è l’opposto di cadere. Mastico tutto e caccio il monosillabo, lo spingo fino all’intestino.

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