Il vescovo di Canterbury

Fuori dal letto sei avaro. E quindi: perché siamo usciti dal letto?

Tu tocchi il sesso, e quello che ci sta vicino, in tutti i modi. Senza chiedere, senza preliminari, per la via più breve, fendendo veloce l’aria. Mentre quando di mezzo ci sono le parole, le domande, ti fermi e aspetti. Come una volpe a bordo strada, incerta se attraversare o no.

Ho fatto quasi tutto da sola. Quel pomeriggio, dopo il convegno, giravo per le sale della mostra immaginando di vederti apparire nel riflesso di una teca o con un vaso canopo a diaframma tra di noi, e tu che come me lo guardassi spaesato e ti chiedessi a che pro tutte queste tombe profanate, e da chi, e quando, soltanto per poterci raccontare com’era la vita quotidiana degli Etruschi. Poi, dall’ultima stanza, ti vedo nel bookshop, con uno zainetto grigio tenuto su una bretella sola. Quelle spalle un po’ curve quasi a tenere in ostaggio il collo. Sfogliavi un libro sul tavolo e per un attimo ho sperato che venissi tu, dov’ero io. Ma no, perché avresti dovuto? Ero io che ti conoscevo. Così mi avvicino, ti tiro lo zaino e mi presento. Ho letto il tuo libro e ho scritto una breve recensione. Ti metto in mano un foglio. Mi guardi sorridente, di certo sei brutto e i capelli diradati sulla nuca non sembrano essere veri. Un caffè alle macchinette, non ricordo di cosa abbiamo parlato. Le mie gambe deboli, chissà perché. Non ho avuto il coraggio di chinarmi e legarmi una scarpa. Il gesto scanzonato e un po’ aggressivo di tirarti lo zaino mi era venuto proprio come contrappunto al tremare anzitempo.

Quanti segni, che tu non eri in grado di cogliere. Quando ci siamo salutati ti sei fermato nei miei occhi un attimo in più di quanto fosse scontato, e in breve tempo sei diventato il vescovo di Canterbury. Ti chiamavo così, quando scrivevo di te, di noi. Eri il vescovo sulla rubrica del telefono. Provenivi da un passato non compiuto e ti eri adattato, tutto sommato con disinvoltura, a una relazione improbabile in differita dal resto del mondo.

Non ti ho mai raccontato niente. Uno dei miei ricordi più misteriosi è ambientato nel sagrato di una chiesa in un piccolo paese di provincia, sotto al castello. Dopo la messa annuale per mio nonno usciamo dalla chiesa, io e mia mamma, ci fermiamo a parlare con mia zia e mia cugina. Sono invasa da un dolore nero e vischioso, senza parole. Ero sempre senza parole da bambina. Mia cugina ride, io non ne sono capace. Mi sento inadeguata, un mammifero impaurito e solo dal pelo bagnato. Questa è l’ultima volta, l’ultimo giorno, l’ultimo pomeriggio. Non voglio sentirmi mai piú cosí. Rientrata a casa, salgo nella camera dei pasticci al primo piano e apro l’armadio color mandorla. Appeso c’è uno dei fucili da caccia di mio nonno. Lì verticale tra i giacconi per l’inverno. Lo stacco dall’attaccapanni ma non so che farmene. Non sarà di certo carico. O magari sì. A me interessa guardarlo, immaginare il gesto ideale, liberatorio, disperato.

Di recente in sogno ho rivisto quella bambina da sola nel sagrato. Tutti se ne sono andati. L’erba è cresciuta dove l’asfalto è bucato. Forse la bambina si incammina per la strada che conduce alla piazza grande, o è un’altra persona ad andarci (la sagoma sembra più alta). La bambina e la sagoma alta non sono raggiungibili, le guardo da un altro spazio. Qualche anno fa l’intera facciata del castello, quella che sovrastava la chiesa, è crollata nel sagrato. Qualche tempo dopo, hanno ceduto le arcate di sostegno della piazza grande. Non credo che nessuno possa più arrivarci, oggi. Mi chiedo cosa dovesse accadere perché parlassi, quel giorno nel sagrato. Perché ridessi. Ma che t’importa? Anche tu avrai immaginato qualche gesto disperato e poi l’hai lasciato perdere, per modestia. Una volta mi hai scritto: per te sarà difficile crederlo ma anch’io sono stato toccato dalla vita. Perché dovrei pensare che non sei stato toccato dalla vita? Non so niente di te. Eppure poi, dopo un attimo, hai chiuso. Hai chiuso te stesso. Hai chiuso me.

Quanto avrei voluto, dopo quell’incontro (non quello nel bookshop ma il secondo, al termine del viale dei fichi d’India) essere un oggetto sul tuo comodino che sfiori la sera con gli occhiali sul naso. Ho pensato, certo, che sarebbe stato mille volte meglio litigare al casello autostradale e non arrivarci neanche, all’imbocco del viale dei fichi d’India. Eri in pantaloni corti. Davanti alle scarpe da ginnastica con i fantasmini l’attrazione diventa così inspiegabile. Anche la tua sfrontatezza. Tu sei solo le nude parole che dici o raramente scrivi. Tutto il resto è tagliato, saltato via, già nel pensiero. Niente backstage né brutte copie. Un unico tempo lungo, tirato tirato, tutto in primo piano. Quando i corpi sono nudi sai sempre cosa fare e ti stupisci se rido. È curioso perché invece fuori dal letto non mi sono mai liberata dalla paura di ridere, di essere vista ridere. Qualcuno mi aveva scoperta. In seconda media il professore di matematica, che nel primo anno mi adorava, mi ha sbattuta fuori dalla classe più volte perché parlavo con una compagna. Non faceva che guardare me e attendere che accennassi un sorriso, e un giorno mi ha fatta uscire dalla classe, ancora una volta, e poi mi ha detto: tu vai bene a scuola perché Madre Natura ti ha dato l’intelligenza ma come persona vali poco, non vali niente. E io a interrogarmi, per anni, su chi fosse Madre Natura, incerta se dovessi ringraziarla o meno. Madre Natura per me è stampata sulla copertina del libro di matematica. Un‘entità che fa e dispone e poi c’è chi, come me, sperpera i privilegi. Da grande mi sono spesso sentita un meraviglioso bluff. Con il rossetto e le gambe perfette. Moralmente discutibile e di principi superficiali. Tutt’al più potevo tentare la prova del fucile, il suicidio rituale che non avrei mai messo in atto veramente. E tutta quella ricerca di verità e il desiderio di essere autentica li avrei barattati con una frase o un gesto di riconoscimento, di assicurazione, con la certezza che stavo finalmente compiacendo qualcuno.

Torniamo alle frivolezze? Mi mancano e anche la pizza lasciata a metà perché nel dopocena c’è di meglio da fare. Quei baci in cui mi aggrappo al tuo collo anche se le spalle non sono larghe né forti. Quel toccarsi, subito, incerti tra lo spogliarsi e il farsi spogliare. E sbirciare sul comodino qual è l’ultimo libro che stai leggendo.

Sono affezionata al tuo incantesimo. I miei pensieri sottobanco – in certi giorni li ho definiti così: contropensieri che tagliano obliqui i pensieri diritti della sopravvivenza, dell’esistere quotidiano – sono tutti su questa storia non necessaria, di certo un po’ sconveniente, quelle storie che sarebbe meglio si fermassero al primo incontro tra i fichi d’India e poi le ricordi con un sorriso quando per caso sistemando gli scaffali ritrovi un libro che lui ti ha regalato e ti sorprendi, allora, perché forse un po’ ti ha pensata. Ma che scema, so bene che mi hai pensata e desiderata e forse non ti sei sentito all’altezza e tutte quelle altre stupidaggini. Alzo gli occhi al cielo – tu non li vedrai – e non mi crederesti se ti dicessi che amo le delusioni in compagnia. Quegli incontri certamente sottotono, dove io non sono vivace e tu sei poco attento. Dai la schiena subito e ci si saluta senza neanche un abbraccio. Ritorno a casa, non mi faccio la doccia, resto per qualche ora con quegli stessi vestiti che sono stati toccati, più immobile che posso. Accendo il camino, sospesa e insoddisfatta. Il gatto non accenna a venirmi in braccio, e ripenso al vescovo.

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