Appena sveglio infilo una mano negli slip contenitivi e mi tasto i testicoli. La palla che mi dà noie è la destra – più in alto rispetto all’altra – e le mutande aderenti con sospensorio incorporato servono a contenere lo scroto evitandone una torsione involontaria durante il sonno.
Un pezzo degli intestini si è scollato scivolando in basso oltre la fossa iliaca, proprio sotto il cieco, andando a comprimere il funicolo spermatico. La chiamano ernia da cocaina, a furia di spingere a vuoto per colpa del Guttalax – lassativo utilizzato dagli spaccini per tagliare la bamba – può capitare che le viscere escano dalla sede addominale terremotate dalle continue scariche dissenteriche che accompagnano le pippate serali. A dire il vero l’andrologo suggeriva un piccolo intervento di fissazione testicolare alla parete scrotale, ben più efficace rispetto al contenimento meccanico delle mutande ortopediche, ma per adesso non se ne parla proprio di operazioni chirurgiche.
I rintocchi ritmici frantuma-sonno mi martellano le cervella rintronate, non avevo dormito un granché bene, anzi, non avevo praticamente chiuso occhio preso com’ero a fare la cotoletta nel letto girandomi da una parte all’altra. Quando la sera tiro di cozza, il risveglio al mattino seguente è terribile: la mente, parzialmente attiva grazie agli eccitanti mai assorbiti del tutto, non riesce a decifrare istantaneamente gli stimoli visivi, e il corpo, parecchio impacciato, risponde in ritardo alle disposizioni del cervello in preda a micro-paralisi del sonno. Ultimamente sono le gambe a riattivarsi per ultime, le gambe e la bocca; gli arti inferiori, plasticizzati a livello delle giunture, sono così rigidi che mi pare di avere un compasso al posto delle gambe e la mascella, serrata e secca, ci mette un po’ a sbloccarsi e riprendere le sue naturali funzioni.
Tolgo la mano dagli slip e provo a sollevarmi dal divano infilzando i gomiti nell’imbottitura del materasso, poi oscillo tutto intontito in direzione del bagno reggendomi a mobilia di varia natura – uno scaffale, credo, e un tavolino instabile – e barcollando raggiungo il cesso. Una volta dentro, quando sia le gambe che la bocca paiono essersi più o meno liberati dalla rigidità da cocaina, mi guardo allo specchio e noto un paio di occhi secchi come due noci e del colore simile alla fodera del divano: dire che sto una schifezza sarebbe farmi un complimento.
Mi tracanno qualche sorso d’acqua – che subito sputo per il rivoltante retrogusto di foglie bagnate e ruggine – direttamente dalla cannella del rubinetto, provo a darmi una rapida sistemata alla capigliatura con le mani e poi, dopo questo rapido e inefficace intervento di cosmesi facciale, mi infilo la tuta monoblocco da lavoro stesa sul calorifero.
Abbastanza presentabile, cioè ancora inguardabile ma poco meglio di prima, apro la porta della mansarda e scendo lentamente al piano di sotto decisamente impreparato ad affrontare un’altra giornata in officina.
Basculando in corridoio passo di fronte alla camera matrimoniale – stanza ormai adibita a uso esclusivo di mia moglie –: sta ancora dormendo. Io e lei abbiamo smesso di condividere lo stesso letto da quando è nata la nostra seconda figlia, credo che a complicare le cose siano stati i soldi e la cozza – non so in che ordine, forse prima la bianca e poi i soldi – a ogni modo ha deciso di farmi la guerra e mi ha chiesto il divorzio, così tra qualche settimana me ne dovrò andare via, sbattuto fuori senza più un centesimo in tasca.
Proseguo lasciandomi alle spalle la mia ex-stanza e imbocco la scala a chiocciola per abissarmi nel box, l’unica zona della casa (oltre a quella squallida soffitta dove mi tocca dormire) che posso considerare ancora mia. A metà rampa l’odore d’umidità perenne mi assale avvolgendomi insieme al buio pesto che domina il garage, e, avvinghiato al corrimano, scendo insicuro gli ultimi gradini smanacciando alla cieca lungo il muro gelido alla ricerca dell’interruttore. Quando la luce giallognola inizia a fibrillare mi appare la mia automobile – la Clio – quel catorcio a tre porte che avrei dovuto rottamare da anni.
Guardando oltre la macchina intravedo tra gli scatoloni ammucchiati la fuciliera, il mobile in legno massello con la vetrina per le doppiette montata sopra. Urto con la coscia il cofano del rottame e mi avvio verso la teca: adesso è vuota perché ho venduto tutte le armi per pagarmi la cocaina, ma un tempo era piena di vita.
Le pistole stavano sul fondo, quella da cui fu più difficile liberarsi era la Colt Detective calibro 38 del ‘75, una rivoltella di due pollici e mezzo con il fondo cromato in acciaio dotata dell’infallibile caricamento a tamburo, praticamente perfetta per la difesa personale: struttura semplice, pochi ingranaggi – quindi zero rischio inceppamenti – e un’affidabilità di sparo elevata. L’altra era una semiautomatica, la Supermatic calibro 22 del ‘76, arma americana da tiro con l’impugnatura per destrorsi, caricatore dieci colpi e carrello ergonomico a contenere la combustione inversa del proiettile e scaricarla direttamente sul castello della pistola: silenziosa, precisa, letale.
Mi appoggio alla portiera della macchina e fisso il ripiano superiore, anche se sgombro e coperto da uno spesso strato di polvere riesco a figurarmi gli otto fucili da caccia: due sovrapposti – il Franchi e il Beretta calibro 12 per il tiro a volo – due contrapposti per la piccola selvaggina, due semiautomatici cinque colpi per l’assalto al cinghiale e la carabina Diana ad aria compressa. Infine, appeso sopra la teca spiccava il famigerato avancarica calibro 16, un’arma piratesca caricabile con qualsiasi cosa: bottoni, pezzi di acciaio, palle di ferro, orologi o qualsiasi altro oggetto contundente adatto alla legittima offesa, con questo ci feci parecchi soldi riuscendo a ricavare dalla svendita il corrispettivo d’una ventina di pallini.
Ormai tutte quelle armi saranno chissà dove nelle mani di qualche cacciatore o qualche altro fascista esaltato; forse quei fucili stavano meglio dove erano prima, cioè nello studio del nonno vicino ai suoi gingilli di guerra appesi alla parete.
Il vecchio era stato capo squadra dell’Ottava Legione del Fascio di Combattimento di Curdomo – sigla propagandistica che univa i tre paesi adiacenti, Curno-Dorotina-Mozzo – nel 1938, eppure credo non gli interessasse un granché di Mussolini, men che meno delle medaglie sgualcite o di quelle altre pagliacciate appese nello studio di famiglia. A lui piacevano solamente due cose: i fucili e l’olio di ricino, ed essere iscritto all’albo fascista gli garantiva libero accesso a entrambe. Contrariamente alle sue vecchie frequentazioni squadriste, il nonno sosteneva che l’olio di ricino era un toccasana e anziché somministrarlo ai partigiani se lo tracannava lui stesso almeno due volte al giorno e lo dava da bere pure alla Nuvola, la cagna da riporto che lo accompagnava durante le battute di caccia. Era affezionatissimo a quella Dobermann e il suo motto era “chi non ama le bestie non ama i cristiani”, il che cozzava forse a prima vista col fatto che fosse solito picchiare la nonna (cattolica, e pure invalida in carrozzella) un giorno sì e l’altro anche. Generalmente la malmenava a pranzo dopo essersi scolato un litro di rosso, le afferrava il naso con due dita – utilizzando il pollice e l’indice come una tenaglia – e le scuoteva energicamente la faccia coprendola di insulti e ricordandole la sua condizione di vegetale domestico, cioè di peso per l’umanità tutta.
Con un colpo di reni scollo il sedere dal finestrino della Clio, mi raddrizzo, afferro la teca con due mani e la sposto tirandola verso di me, poi infilo il braccio dietro al mobile e prendo il pacco tubolare avvolto nei giornali.
Non lo ricordavo così pesante quel fagotto metallico, lo deposito sul tettuccio dell’auto e lo scarto, foglio dopo foglio, fino a che viene alla luce il MAB 38 – moschetto automatico Beretta del Regno d’Italia, nonché il mitra da guerra del vecchio che non avevo venduto perché illegale. Erano passati anni e mi ero quasi scordato di averlo nascosto dietro la fuciliera, lo sollevo sopra la mia testa orientandolo verso la luce, è ancora splendente, così brillante che mi sembra vivo, la scritta incisa sul blocco superiore della canna si vede bene: “si vis pacem parabellum”: è vero, se voglio la pace devo fare la guerra.
Infilo il caricatore bifilare 9×19, armo l’otturatore, abbraccio il mitra e torno al piano di sopra diretto verso la camera di mia moglie.