Inciampare in questa stradina è stata la mia condanna.
La gonna lunga con i veli bianchi ha attutito il colpo. Si è lacerata sulla parte sinistra, ma almeno non mi sono sbucciata le ginocchia. L’unico taglio me lo sono procurato atterrando con le mani sul pietrisco. Ho pulito come potevo i residui di polvere e pietruzze, ho portato alla bocca il palmo e ho umidificato la ferita con la lingua: la saliva è il miglior antisettico – mi dice sempre mio marito.
Solo quando mi sono rimessa in piedi e ho alzato la testa, ho visto.
Una grande vetrata ad angolo esponeva qualcosa. Mi sono avvicinata, ho notato un quadro enorme appeso a due grossi catenacci, poi un altro, sempre grande e senza cornice, su un cavalletto. Altri erano appoggiati su una parete di cartongesso, altri ancora sul pavimento. Non riuscivo a capire cosa ci fosse raffigurato, ma non avevo dubbi su cosa sembravano: pesi morti macchiati di colore.
Una donna canuta in fondo alla sala se ne stava curva su un’altra tela – anche questa imponente e così simile a un cadavere immobile e pesante – a sverniciare con un pennello.
“Buon pomeriggio”, ho detto “è possibile visitare il suo studio?”
La donna si è voltata, mi ha sorriso e ha ripreso il suo lavoro.
Una strana euforia ha cominciato a pervadermi facendomi dimenticare la frustrazione, provata poco prima, per la caduta. Girellavo in quella bottega d’artista entusiasta, tra dipinti battezzati con un generico Senza titolo e altri che invece un titolo ce l’avevano, ed erano quasi tutti tetri – Scrittura di commiato, Parole nascoste, Appunti per un racconto, Memorie e I cippi per i bambini morti –; pensavo che avrei volentieri passato il resto della giornata lì, con quel forte odore di trementina misto a qualcos’altro che mi pungeva le narici, piuttosto che rincasare, ma non volevo nemmeno far tardi – mio marito dice sempre che arrivo dopo, ma dopo quando non me l’ha mai detto.
Così estasiata, con un sorriso ebete stampato sulle labbra, cercavo di frugare con lo sguardo ogni pertugio, ogni spazio, ogni colore e rappresentazione mi si parasse davanti. Finché la mia attenzione non è stata attirata da una tendina che copriva qualcosa, un’altra stanza forse, ma ho resistito: non ho sbirciato, anche se la tentazione era tanta.
Sopra questa specie di varco c’era una scritta:
Quadri. Ovvero il tempo che frana in immagini.
E più sotto due iniziali puntate: P. A.
“È sua?”, ho chiesto tendendo l’indice in direzione della frase. La donna si è voltata, mi ha guardata e stavolta non ha sorriso.
“L’ha scritta lei?”, ho ripetuto convinta che non mi avesse sentita – mio marito mi dice sempre che parlo come se avessi una prugna in bocca. “È una frase bellissima”, ho aggiunto senza ottenere risposta.
Mi sono avvicinata alla donna proprio mentre, per l’ennesima volta, portavo il palmo alla bocca per disinfettare la ferita. Con uno strattone – che mi ha fatta sussultare – ha agguantato la mia mano e ha pigiato sulla tela, con forza, il punto esatto del taglio. Dopo poco l’ha lasciata andare e mi ha sorriso.
“Tendo a usare colori naturali” ha detto e mi ha mostrato una piccola chiazza del mio sangue che compariva su uno sfondo nero pece. In alto su uno scotch di carta c’era il titolo: Cuore è radice.
“Non volevo spaventarla” ha aggiunto. “Continui pure il suo tour, di sopra” e ha indicato la tenda, “ci sono altri miei lavori e un’altra piccola officina”.
Il suo gesto era stato alquanto bizzarro, certo, ma la mia curiosità superava ogni cosa: dovevo vedere.
Ho oltrepassato la tendina e ho cominciato a salire i gradini di cemento. Sui muri erano appese altre sue opere e, in una piccola cornice, c’era un articolo di giornale ritagliato. Non l’ho letto: troppo lungo – mio marito dice sempre che la mia attenzione è fugace come la luce. Mi sono soffermata solo sulle parole scritte in grande e neretto: trasfigurazione della realtà; performante; audace.
Audace di sicuro quella donna lo sarà stata e lo era anche la stanza in cima alle scale. Non esagero – e mio marito dice sempre il contrario – ad affermare che ero in presenza di un bordello.
Sdraiati su lettini c’erano uomini e donne che si lasciavano masturbare da uomini e donne vestiti con divise e camici ospedalieri. La stanza era piena di gemiti ed era impregnata di un odore acre. Su tre sedie, invece, se ne stavano seduti un uomo, una donna e un bambino ciascuno con un grosso ago conficcato nel braccio da cui diramavano lunghi tubi: lì scorreva il loro sangue che poi sfociava in una sacca.
Mi guardavo intorno stupita: non capivo: dove mi trovavo? Stavo per avvicinarmi a qualcuno per chiedere informazioni quando un medico, che continuava a smanettare il pene di un uomo, con l’altra mano libera recuperava, da un vassoio posto lì vicino, una provetta in plastica. Lo sperma zampillò nel contenitore, il ventre dell’uomo sussultò, il suo volto aveva un ghigno di piacere. E anche io cominciavo a sentirmi eccitata.
“Come le ho detto, ho la tendenza a usare colori naturali” la donna era sopraggiunta alle spalle senza che me ne rendessi conto, incantata com’ero a guardare una poco più che ventenne ansimante che si apprestava anche lei a raggiungere l’orgasmo allo stesso identico modo – con una provetta – dell’uomo di prima.
“Mi piace mischiare i liquidi biologici” ha aggiunto. “Sono colori perfetti per i miei lavori. Sangue, sperma e liquido vaginale. Vorrebbe provare anche lei?”
Non ho indugiato un attimo – non capita spesso di fare l’amore con mio marito, lui preferisce i porno quando non riesce a dormire la notte. Mi sono spogliata di fretta e mi hanno fatto stendere su un lettino. Prima di chiudere gli occhi e godermi quel momento, ho dato ancora un’occhiata in giro: un signore raccoglieva e piegava i vestiti che avevo accatastato sul pavimento, qualcun altro raggiungeva il piacere supremo, il bambino aveva smesso la sua donazione e ora giocava con dei lego; una finestra alla mia altezza dava su un giardino. Riuscivo a vedere una grande quercia secolare e degli uomini che scavavano la terra umida proprio ai suoi piedi. Ne distinguevo persino le radici.
“Ora le faremo l’anestesia” ha detto la donna accarezzandomi la mano ferita. “Poi non sentirà più nulla, nessun dolore. Conti con me alla rovescia: dieci, nove, ot…” aveva iniziato.
E prima di arrivare a sei, ho realizzato che inciampare in questa stradina è stata la mia condanna – chissà ora cosa dirà mio marito.