L’ultimo respiro

Il gatto le sta acciambellato intorno alla testa, sul cuscino, come una corona. Se lo cacciassi, farebbe il giro del letto e tornerebbe a mettersi tale e quale. Ha sedici anni, che valgono su per giù quanto i nostri ottanta.

Mia moglie intanto legge un libro.
Sto per buttare giù il sonnifero, invece lo poso vicino al bicchiere d’acqua. Mi sporgo quel tanto per vedere se sta dormendo – a volte capita che chiuda gli occhi con il libro ancora in mano – ma questa sera ha i pensieri, me ne sono accorto a cena per quanto aspettava tra un boccone e l’altro. Alla fine, se non gliel’avessi messa davanti, avrebbe scordato di prendere la medicina.

Io torno al mio posto e sistemo il piumone, caldo e pesante come piace a me. A lei basterebbe una copertina anche d’inverno.
Aspetto un attimo e mi allungo di nuovo solo con il busto e la testa. Quando noto che la maglia le è salita, mi avvicino e con un dito le tocco l’ombelico. Lei scatta con un grido. Il gatto salta in piedi, mi fissa e torna sdraiato a semicerchio. Anche mia moglie mi lancia un’occhiata, si tira giù la maglia e io allargo le braccia.
Torno nella mia metà di letto e mi spalmo la crema sulle mani. Il gatto chiude gli occhi lentamente e sono l’ultima cosa che osserva. Poggio la crema sul comodino e mi sfrego le dita incrociandole. Poi mi faccio vicino a lei e insinuo il mio grosso naso nella piega del collo. Ha il profumo di lavanda, lo stesso che spruzza sul cuscino prima di addormentarsi.

Oggi a pranzo sono stato alla festa di pensionamento di un collega. Io sono in pensione già da un pezzo, lui si può dire che l’abbia visto crescere e tanti che c’erano al ristorante neanche li conosco. Abbiamo mangiato e fatto un brindisi alla fine con una torta a forma di treno, perché è in mezzo ai treni che abbiamo lavorato tutta la vita. Dopo non mi sono dilungato in chiacchiere e sono andato via. Sulla strada del ritorno, lungo il molo e dalla fermata del bus fino a casa, ho camminato veloce per tornare alla svelta. Quando sono entrato in salotto, Enrica era seduta sul divano, nel posto d’angolo con le gambe allungate, e guardava fuori dalla finestra. Vedeva il cielo da lì e nient’altro, mentre il gatto le dormiva steso sulla pancia e russava. Mi è parso d’essere mancato da chissà quanto.

La annuso con un rumore forte, sembro un maiale che grufola, ma lei per un po’ fa finta di niente. Io aspetto, continuo a fare rumore e muovo la testa sulla sua spalla finché allontana il libro, lo chiude con il dito a segnare la pagina. Fa tutto con calma e intanto la coda del gatto dondola dall’alto e mi sfiora l’orecchio.
Per farla voltare a pancia in su cedo un po’ della mia posizione. Mi guarda come a chiedere, che vuoi?
Di tutta risposta mi rizzo sulla schiena, liscio i baffi e li ritorco allinsù con un gesto accentuato delle mani.
“Mmm… mmm…” faccio con le labbra contratte. Lei mantiene uno sguardo serio.
“Ah” dice.
Sistema dietro l’orecchio una ciocca di capelli grigi, che è un ricciolo perfetto, con un gesto che mi riporta a un’estate di tanti anni fa.

Era sera, non c’era più nessuno nel nostro lato dello stabilimento ed eravamo comodi sul lettino, lei sdraiata, io seduto ai suoi piedi. Di certo era luglio, perché agosto lo trascorrevamo in montagna. Indossava un costume che mi era sempre piaciuto, di un colore rosa cipria che al sole brillava. Stava bene sul colore della sua pelle. Avevamo fatto il bagno al tramonto e ci asciugavamo in silenzio. Si portò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio e io le guardai la pancia. Mi sistemai meglio sul lettino e lei si aggiustò il reggiseno. Poi guardammo tutti e due verso la cabina e ci alzammo insieme, dando un’ultima occhiata a controllare gli ombrelloni vuoti. Ricordo che, chiusi al buio della cabina, sentivamo la risacca delle onde sugli scogli.

“Dove ho messo gli occhiali?” chiedo, alzo il piumone fingendo di cercarli.
Trovo la benda per gli occhi con cui mi ero abituato a dormire. Poi raggiungo i suoi piedi. Bado a non sfiorarli, ruoto con il braccio buono, mi preparo e le afferro una gamba fra le mani.
“Che fai!” grida e si dimena, ma ormai lho avvinghiata fra le braccia e ci poso la bocca aperta. Fingo di mangiarla, muovo i denti senza stringere.
“Aspetta, aspetta!” dice in segno di resa. Da sotto non vedo ma capisco che si leva gli occhiali, si allunga e raggiunge il comodino. Appena finisce mollo la presa e mi avvento sulla pancia: le cingo i fianchi con le mani e soffio aria calda sullombelico, attraverso la maglia. Muovo le dita e le faccio il solletico.
“Uh! Oh!” fa lei “Uh! Ora vedi se te la faccio pagare!”

Mi sollevo con la mano buona e con laltra le carezzo la spalla, lei la muove su e giù e ride in modo diverso, ora: di gusto.
Sospendo l’assalto e mi sfilo la canottiera. Inarco le spalle e gonfio il petto.
“Vecchio tricheco” mi dice sfiorandomi i peli bianchi sulla pancia. La tiro in dentro e attendo. Lei fa scendere le due spalline all’altezza del reggiseno. Allora reagisco, la guardo e mi scuoto – muovo le spalle e il busto a destra e a sinistra due, tre volte – sento il fiato che si rompe e mi oscilla il petto. Anche la pancia, non la tengo più. Non ce l’avevo ancora quella sera in cabina, ed ero solito tenere i peli più corti, mai rasati, quantomeno ordinati come piacevano a lei. La bicicletta fino al lavoro e la piscina dopo la pensione non sono bastate: mi è venuto il fisico di mio padre e di mio nonno, pochi capelli e la pancia in fuori. Solo i baffi rossi – adesso un po sbiancati – sono soltanto miei.

Mi passo una mano sulla testa liscia e sotto la vestaglia intravedo il seno che ha sempre avuto: una parte del suo corpo che il tempo sembra avere scordato.
Le salgo sopra e la avvolgo tutta, attento a non pesarle sul corpo. Allora mi scateno in una sfilza di baci sulle spalle che sono ancora scoperte, prendo fiato e mi reimmergo. Ci agitiamo. Lei si divincola e prova a disarcionarmi. Facciamo cigolare le molle del letto e dopo averle baciato anche il collo – sa di crema appena spalmata – mi stacco e torno al mio posto, pancia in su, come una molla a riposo.
“O mio Dio!” dice lei. Io riprendo fiato. Sulla testa di mia moglie il gatto non si è mosso, è ancora a mezzaluna.
“Sei rosso paonazzo, roba che ti prende un colpo”. Anche lei lo è, ma non riesco a dire niente, mi avvito i baffi con il braccio destro che trema.

Guardiamo il soffitto. Non ci siamo mai presi per mano o abbracciati granché, dopo che facevamo lamore. Si sistema le spalline, indossa gli occhiali e apre il libro.
Io mi metto a sedere e butto giù la pastiglia per dormire con un sorso dacqua. Poi spengo e riaccendo due volte la luce sul comodino: il mio segnale. Lei leggerà ancora, di solito quando finisce sono mezzo di qua e mezzo di là, la sento appena piegare gli occhiali e posarli sul comodino assieme al libro. E accendere la televisione a volume basso: la spengo io di notte quando vado in bagno.
Prende il profumo dal cassetto – al riparo dal gatto, sennò ci gioca – lo spruzza sul suo cuscino e dopo anche sul mio. Ogni notte il mio ultimo respiro è al profumo di lavanda.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *