L’intonarumori

La tele si spegne e così la luce della stanza. Sento i clic anche fuori in corridoio, i neon dei locali comuni hanno smesso di funzionare per oggi. Quel che ho visto mi ha distratta, ho dimenticato di andare in bagno prima della nottata.
Ora è troppo tardi, sarebbe pericoloso uscire dalla stanza. Qui dentro non posso fidarmi di tutti gli inquilini, soprattutto non dopo una scena con questa carica di erotismo che tutti hanno visto, leccitazione è alta in tutto ledificio. Nel buio cerco la maniglia della porta, la controllo una volta ancora: è ben chiusa. Seguendo il muro con le dita cerco la finestra, la apro. Mi sbottono i pantaloni e li tiro giù, faccio lo stesso con le mutande. Poi mi siedo sul cornicione aggrappandomi a una corda appesa al soffitto che ho installato per queste emergenze. Urino dal trentesimo piano, tanto in giro non cè mai nessuno e la pioggia costante non mi fa sentire in colpa.
Chiudo e con delicatezza cerco il letto, provo a dormire. Come quasi sempre mi succede, non ce la faccio. Urla lontane, gemiti improvvisi e scricchiolii nel legno accompagnano il mio vigile riposo.

Mattina. Lintonarumori abita allultimo piano del grattacielo.
I fine settimana la coda davanti al suo ufficio è lunga. Non sempre è fattibile consultarlo in giornata. Quando mi serve una consulta, mi presento il sabato presto e, se vedo che entro mezzogiorno o luna non combino niente, allora rientro da me, guardo una replica della serie, mi riposo il possibile e ci riprovo la domenica.
A volte i tentativi vanno avanti per un paio di mesi, le mattine del weekend trascorrono in questo modo. Tutte, in realtà. Le consultazioni con lintonarumori devono essere regolari per funzionare. Non vederlo per tre, quattro mesi sarebbe deleterio, come ieri notte. È vero che sono brava a ignorare i suoni emessi dagli altri e dalle cose, ma questo è grazie allintonarumori. Ho bisogno di lui, così come gli altri abitanti di questo posto.
Il consulente vive grazie allobolo che ciascuno di noi gli deve dare periodicamente affinché lui ci allevi dallo stress causato da unesposizione costante al rumore in un edificio così poco isolato come questo.

«Signora, è da tanto».
«Purtroppo è così».
Lintonarumori si alza e viene a darmi la mano, prende la mia sul palmo e la accosta alle labbra, senza contatto. Precisione di gentiluomo o forse precauzione igienica.
«Le mie teorie funzionano solo se cè costanza, signora».
«Lo so», dico indicando con un brusco scatto del braccio la porta ormai chiusa e le persone ancora numerose dietro di essa.
Lintonarumori si siede alla scrivania, prova un sorriso, poi mi incita a fare entrambe le cose.
«Un collega non me lo daranno mai, signora. Quel che fate voi è più importante».
Luomo guarda prima lorologio da polso, poi la porta. Io appoggio i gomiti sulla scrivania e sorreggo la mia testa con entrambe le mani.
«È uno degli inquilini al piano sopra il mio. Non saprei dire se esattamente sopra di me oppure uno o due appartamenti di lato».
«La fonte di un suono è difficile da localizzare».
«Esatto. Ma più o meno arriva da quella parte».
«E le tecniche di meditazione che le ho insegnato non funzionano?».
«Non con lui».
«E quindi va rimosso?».
«Non vedo alternative».

Ci guardiamo negli occhi. I suoi sono marroni come quelli di chiunque abiti questo caseggiato.
«Lei lo sa, signora, che prima di una rimozione devo assicurarmi che la persona in questione sia meno performante di lei».
«Sono sicura di essere più performante io».
«Lo immagino altrimenti non mi chiederebbe di fare quello che farò. Ma io dovrò comunque accertarmene formalmente. È la prassi».
«Non glielo impedirò di certo io».

Lintonarumori apre il suo quaderno e inizia a scrivere.
«Sa anche cosa dovrò fare qualora la persona in questione sia a tutti gli effetti più performante di lei».
«Lo so».
«E non vede alcun problema in questo?».
«Non vedo problemi. Se il tizio è più performante di me e non può essere rimosso, rimuova pure me, io tanto così non posso andare avanti».
«Ma la meditazione è sicura di effettuarla per bene?».

Strappa un foglio dal quaderno e me lo porge, cè il solito schemino con la donnina a gambe ripiegate, i chakra schizzati ai punti giusti, il flusso della respirazione, le frecce e tutto il resto. Ho già pagato bene questi schemini molte altre volte. E non mi lamento: funzionano.
«Sì. Alle riunioni, qui in coda, in altri momenti della giornata non sono infastidita da nessuno. Non sento nessuno. Tranne lui».
«Dovrà in ogni caso aiutarmi a identificare la persona con più precisione».
Accende il computer.
«Non le farò ammazzare un tizio a caso, no».
«Lo spero bene, signora».
Dalla stampante ad aghi esce la mappa del mio piano, di quello sotto e di quello sopra. I nomi degli inquilini sono redatti in osservanza della normativa sulla protezione dei dati, rimangono le iniziali. Io gli indico i tre mini-appartamenti sopra il mio da dove credo possa provenire tutto quel rumore notturno. Lui annuisce, si alza e mi apre la porta, senza dimenticare il baciamano.
Lonorario è quello di sempre: gli do tutto quello che ho in tasca.

Quella notte lì non dormo.
Fisso il televisore acceso ma silente, fermo nellimmagine piatta che annuncia la sospensione delle trasmissioni durante le ore di riposo. Cè molto legno in questo palazzo, e il legno ha vita propria. Lumidità, laria, qualcosa, fatto sta che risponde a ogni piccola vibrazione e lamplifica. Muovo il collo per distendere il trapezio e il pavimento scricchiola. Respiro.
Tiro fuori dalla tasca lo schemino abbozzato dallintonarumori, poi respiro di nuovo.
Di sopra urlano. Urlano privi di ritmo, di una qualsiasi rigidità geometrica che potrebbe aiutarmi ad anticipare e quindi contrastare il rumore nella mia testa. Urlano adesso come hanno urlato tre minuti fa e come urleranno tra dodici minuti e tra altri ventotto, implicando lapertura dei miei occhi e del mio cervello che pensa e teme il prossimo imprevedibile ma sicuro grido nel buio.
È la prima volta nella mia vita che rimpiango di non poter vedere la tele.

Lo schemino dellintonarumori sembra indicare che il mio consulente ha ben capito dove intervenire. Devo accertarmene? Per farlo dovrei uscire dalla mia stanza a questora, e non è pratica approvata dalla maggioranza in assemblea condominiale. Forse dalla minoranza, ma, appunto, la minoranza ne avrebbe tutti i vantaggi. Per farlo dovrei uscire, richiudere bene la porta dietro di me, camminare piano, molto piano, prendere la rampa di scale – lascensore sarebbe una pessima idea – verificare che nella rampa di scale non ci sia nessuno seduto o sdraiato o a fare chissà cosa, circostanza peraltro difficile. Salire piano, molto piano, in punta di piedi. Un piano, un piano solo. Verificare che nel corridoio del piano non ci sia nessuno, e questo invece è plausibile. A meno che lo stesso intonarumori non sia già lì in piena azione.
Di sopra un nuovo urlo rallenta i miei pensieri. E poi li accelera. Ne ho abbastanza. Spalanco la porta della mia stanza ed esco. Un attimo di lucidità mi impedisce di sbatterla forte mentre la richiudo.

Sono nel buio, come tutti.
Incollo i polpastrelli al muro di destra e cammino. A tratti le dita incontrano il legno delle porte dei miei vicini. Quando la materia scompare e sento il vuoto so di essere a lato della rampa di scale. Mi fermo e cerco di percepire: gli occhi sono un pochino abituati, i primi gradini li vedo, ma è più con le orecchie e con il naso che cerco nel buio i battiti di cuori altrui o il fetore emesso nellaria dai loro esofagi. Sembra non esserci nessuno, così decido di salire.
Il settimo gradino lo manco di un paio di centimetri, cado con le ginocchia su uno spigolo, con buona probabilità mi sono sbucciata. Tasto lì dove ora cè un taglio tra i jeans, porto alla bocca il risultato, un liquido ferroso la cui fonte dovrò disinfettare più tardi versando qualche goccia di uno dei miei liquori proibiti.
Il mio proprio sangue, che sta ora cadendo su tutti i gradini dopo il settimo, non è certo la cosa più disgustosa che li ricopre. Anzi, a sua volta credo stia agendo anche lui come disinfettante per questo marmo ormai incrostato dai materiali biologici più disparati.
Spero che la manifestazione, pur soffocata, del mio dolore, non abbia svegliato nessuno.

Rimango la sola presenza attiva in giro a questora.
Arrivata al piano, giro a sinistra e procedo come se dovessi andare in camera mia: la pianta delledificio non mostra differenze tra i vari livelli.
Invece dei polpastrelli, incollo lorecchio sinistro al muro e alle porte che via via incontro. Vibrazioni per ora non ce ne sono.

Da qualche parte, davanti a me, sento un clic metallico tanto insignificante quanto molto chiaro: in questo silenzio mi sembra infatti quasi impossibile non udire i passi dei vari insetti che camminano lungo le pareti. Procedo con più velocità verso la stanza dalla quale è arrivato questo clic. Lurlo che arriva dentro il mio orecchio sinistro mentre scivola sulla porta della stanza giusto sopra la mia per poco non mi rende sorda per metà.
Con forza abbasso la maniglia, conscia di poter emettere del rumore – ché tanto in confronto allurlo sarebbe destinato a rimanere ignorato da tutti gli abitanti. Pur sperandoci poco, la porta non è chiusa a chiave, ed entro a peso morto nellabitazione.

Due uomini sono seduti a gambe incrociate sullo stesso letto a una piazza, uno di fronte allaltro. Indossano solo i pantaloni di un pigiama. I loro torsi sono ricoperti di sudore, ne vedo la lucentezza caratteristica nella loro pelle che brilla al solo lume di candela, accesa sopra il comodino. Uno dei due si sta asciugando il viso con un asciugamano sporco. Laltro tiene in mano una rivoltella, ha gli occhi chiusi e grandi gocce di stress che si formano sulla sua fronte e sul cranio glabro, prima come minuscole particelle di glitter e poi come veri e propri agglomerati di molecole di acqua e sale che cadono rapidi sulle sue guance, per poi scivolare lungo il collo e fermarsi qualche secondo nellincavo sotto al pomo dAdamo. Da lì continuano il percorso lungo tutto il corpo.
Anche luomo che non tiene in mano una rivoltella ha ora gli occhi chiusi. Gettato lasciugamano, tiene le braccia conserte e sembra molto concentrato.
Tutti e due sembrano molto concentrati.
Non mi hanno notata, o almeno così pare. Chiudo la porta per precauzione, molto molto piano.
Mi inginocchio ai piedi del loro letto e osservo le espressioni impassibili e il liquido oleoso che cola da tutti i pori presenti in questa stanza – tutti: ora, anche dai miei. Sento la camicetta incollata al seno.

Dopo molti minuti, di nuovo un clic. È il cane della rivoltella che sbatte sul percussore, seguito dalla rotazione del tamburo. Lho visto sbattere con precisione, come se lo scorrere del tempo tra noi tre in questa stanza sia di molto rallentato in relazione al resto del mondo. Ancora qualche attimo, e poi lurlo che da molte notti mi tormenta. È il tizio con larma in mano, ora con gli occhi aperti e la bocca spalancata, i molari ben visibili, tutta laria fuori dai polmoni, goccioline daria addosso alla faccia dellaltro, il sudore che schizza su tutti i mobili della stanza e sulla mia persona. Lodore delladrenalina sui miei vestiti.

La rivoltella ora giace sul letto, laltro uomo apre gli occhi a sua volta, sembra non essere scosso dalleccitazione sonora del suo compagno, prende larma da fuoco e, consapevole del suo turno, appoggia la canna alla tempia e chiude gli occhi. Posso sentire i battiti dei loro cuori. Quello alla mia sinistra, cioè quello del tizio cui adesso tocca premere il grilletto, aumenta il ritmo. Laltro, invece, sembra godere di un momentaneo riposo.

Il mio pompa come mai lho sentito fare prima dora. Il collo sembra un tronco di quercia dal tanto sangue che fluisce verso il cervello e verso ogni altra parte del mio corpo. La ferita del ginocchio riprende a sanguinare, gocce cadono sul pavimento e si mischiano al sudore dei due giocatori di roulette: ferro, sale, e linfezione acuta che tutta questa scena rappresenta.

Poi la tachicardia rallenta, o forse è il tempo stesso a farlo, dilatandosi come le pupille dei due uomini a pochi centimetri da me. La lancetta dei secondi dellorologio a muro si muove più lenta di quelle delle ore, nella gola sento tre rimbalzi per ogni ticchettio, uno ogni venti minuti circa. Ci siamo fermati, io osservo loro e loro si osservano, ignorano me e tutto quello che sta attorno, ignorano lo stesso tempo che io sto imparando a dimenticare. Mi dimentico di inspirare.

Luomo alla mia sinistra lo fa per me. Quello alla mia destra espira non appena, unora più tardi, sento i polmoni troppo pieni.
Poi un altro clic metallico.
Quindi il silenzio, e lurlo ormai divenuto così familiare.
La pallottola, ancora una volta, non era allineata tra tamburo e canna. Luomo alla mia sinistra sorride, il tempo riprende a scorrere, luomo alla mia destra inizia a muoversi a scatti, rapido recupera larma, scrolla il tamburo, si asciuga il viso, sembra voler recuperare il tempo perduto, affannarsi dietro lo scorrere delle lancette: ora è quella delle ore che si muove come quella dei secondi.

Mi tocco il ginocchio, la ferita si è rimarginata. Con lunghia sporca di fango gratto via la crosticina. Pelle viva.
E quindi la morte, inaspettata.
Non ho visto la canna poggiarsi sulla tempia, né un clic trasformarsi in esplosione. Il tempo, ancora lui: luomo alla mia destra non ne ha avuto il tempo. Crolla sul letto macchiato cremisi con il cuore traforato, crolla anche luomo alla mia sinistra nello stesso medesimo istante, le teste cozzano luna con laltra, teste dure che si infrangono, occhi spalancati che non si chiuderanno più.

Io cado allindietro, ora sento il suono dello sparo, due detonazioni gentili, silenziate con ogni probabilità, arrivano alle mie orecchie molti istanti dopo le immagini. In questa stanza dal tempo bizzarro, la luce continua a spostarsi più rapida del suono.
Rovesciata sul linoleum del pavimento, gli occhi ruotati allindietro, vedo luomo sulla porta, la pistola con il fumo, lo sguardo dellintonarumori solerte come sempre, pagato per servire, pagato per facilitare la vita di tutti noi, togliendola a chi non segue le basilari regole stabilite per una civile sopravvivenza comune. Chi fa rumore deve pagare.
Mi rialzo togliendomi la polvere dal vestito. Gli faccio un cenno col capo, lui fa altrettanto. Dalla porta entrano due signore con un saio da cappuccino, scalze, si fanno strada verso il letto, una butta benzina, laltra butta un fiammifero, lintonarumori lascia fare qualche secondo – o forse qualche ora – poi estingue le fiamme. Esco. So di carne di maiale bruciata e le docce del corridoio apriranno solo domattina.

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