Effluvi

Remigio era alto meno di un metro, pesava dieci chilogrammi e aveva due grandi occhi tondi con cui scrutava avidamente tutto ciò che lo circondava. Le sue labbra, di un grazioso colore rosso, erano costantemente protese verso l’esterno, mentre il cranio, ben tornito, era incorniciato da una capigliatura rada. Le mani erano piccole, esattamente come quelle di tutti i bambini.
Al pari dei coetanei, Remigio trascorreva le proprie giornate perlopiù sonnecchiando, camminando carponi o emettendo lamenti in direzione di qualsiasi oggetto che fosse più in là del proprio braccio. Il suo gioco preferito consisteva nel costruire torri altissime con i cubi, colpirle e piangere a dirotto quando queste cadevano. Il suo secondo gioco preferito consisteva nel ri-costruire torri altissime con i cubi, ri-colpirle, e ridere a crepapelle appena queste ricadevano.
Quando non era impegnato nelle suddette attività, il bambino si dedicava alla propria alimentazione. In tali frangenti, avvicinandosi a lui era possibile percepire un intenso odore di latte. Tale fatto non era per nulla sorprendente: il liquido, sgorgando dal biberon, imbrattava la tutina, mani e guance paffutelle, e, attraverso il processo di evaporazione, diffondeva il dolce effluvio nell’aria.
Le capacità digestive di Remigio migliorarono considerevolmente nel corso degli anni, permettendogli di ampliare la propria dieta. Mamma Clara dapprima non si stupì che il figlio emanasse un tenue aroma di omogeneizzato dopo aver mangiato un omogeneizzato; di mela schiacciata con zucchero dopo aver ingurgitato una mela schiacciata con zucchero; di budino al cioccolato una volta consumato un delizioso budino al cioccolato. D’altronde, il metabolismo del piccino era ancora incerto, e il suo portamento a tavola lasciava a desiderare. A poco a poco, mamma Clara non poté però fare a meno di constatare come Remigio odorasse di popcorn caramellati dopo aver mangiato una ciotola di popcorn caramellati; di pizza al tegamino dopo aver mangiato una fetta di pizza al tegamino; di ottimo stufato di coniglio dopo aver gustato dell’ottimo stufato di coniglio. Divenne allora chiaro che egli rappresentava uno strano caso di bambino che odora delle cose che mangia.

Verso i cinque anni, Remigio iniziò a frequentare la scuola elementare, dove mise subito in mostra le proprie abilità. Se un compagno voleva togliersi lo sfizio di sentire un buon profumo di arancia, non doveva far altro che consegnare uno spicchio di arancia a Remigio, il quale, dopo averlo ingurgitato, passeggiava per la classe diffondendo la piacevolissima essenza.
La sua fama raggiunse l’intero istituto, tanto che Remigio decise di allestire uno spettacolino da proporre durante ogni intervallo. Funzionava così: a seconda delle tripudianti richieste degli spettatori, «Remigio! Pera!», «Remigio! Ciliegia!», «Remigio… Ti prego! Banana!», il suo aiutante ufficiale, Marcello, gli passava un frutto da un cesto e Remigio ne masticava un pezzetto. Salito in piedi su uno sgabello, il fanciullo trascorreva qualche istante di raccoglimento, infine spalancava le braccia con solennità, lanciando la strabiliante fragranza nel corridoio.
I compagni manifestavano la propria ammirazione con applausi e lazzi, mentre qualche bambina arrossiva. Ce n’era una che a Remigio piaceva più di tutte. Il suo nome era Rossella. Rossella era leggermente più alta di Remigio, aveva occhi castani con sottili striature verdi e portava un’imponente acconciatura di capelli ricci. Il suo profumo non corrispondeva a nessun frutto. Cionondimeno, Remigio lo trovava eccezionalmente buono.
Un giorno, venuto a conoscenza della passione di Rossella per le fragole, Remigio ne mangiò più di cinquanta, dopodiché si presentò di fronte a lei e con la più fruttata fiducia in sé si offrì di accompagnarla a casa al termine della giornata. Lei non disse nulla. Spalancò gli occhi castani con sottili striature verdi e scosse rapidamente i riccioli in su e in giù, in segno d’intesa.
Nel corso dell’appuntamento, Remigio mangiò: un gelato all’amarena; un hot-dog; una castagna con la buccia; un fascio di fili d’erba; mezza pagina di quotidiano locale, una pagina di quotidiano nazionale; una manciata di sabbia. A differenza delle altre leccornie, la sabbia non diede risultati apprezzabili. Quel giorno Remigio tornò a casa con un gran mal di pancia, ma con la meravigliosa certezza di aver conquistato la simpatia di lei.
Al compimento dell’undicesimo anno di età, Remigio iniziò a frequentare la scuola media, dove si diffusero le dicerie più fantasiose sul suo conto. Gli studenti più grandi, incrociandoli in corridoio, non perdevano occasione per apostrofarlo a gran voce come “tramezzino”, “sardina affumicata”, o “strudel”, in base a quanto di più raccapricciante avesse offerto quel giorno il menù della scuola. Con i coetanei non andava meglio. Il suo ex assistente, Marcello, si unì al coro dei canzonatori, mentre la bella Rossella gli inviò un bigliettino che lo informava che tra loro era finita, dato che aveva iniziato a frequentare un ragazzo del terzo anno con cui era libera di condividere una porzione di hamburger con patatine senza essere coperta da un’onta di vergogna.
Nel tentativo di rimediare a una sorte infausta, lo sventurato smise di mangiare negli orari della giornata in cui era costretto a sostare in prossimità dei compagni. Ben presto divenne sempre più gracile e cagionevole, mentre il suo umore, solitamente gioviale, si fece terribilmente tetro.

Mamma Clara si rese conto della gravità della situazione e decise di indagare la strana sindrome di Remigio da un punto di vista scientifico.
Mamma e figlio si sedettero nello studio di un dermatologo, il quale fece un’attenta anamnesi del paziente e lo sottopose a una serie di analisi cliniche e test attitudinali, non ultimo quello del martelletto. Infine lo invitò a fare ritorno la settimana successiva. Il giorno del verdetto, Remigio e mamma Clara ascoltarono con trepidazione l’arringa del luminare. Servendosi di una terminologia meticolosa e ingarbugliata, questi dichiarò che tutta la scienza del mondo non era stata in grado di dare un nome al disturbo di Remigio, e che ciò che non ha un nome non può certo avere una cura!

Delusi dalla medicina, Remigio e la mamma decisero di interpellare uno psicologo. Data la delicatezza del compito, scelsero un professionista serio e stimato, che vantava tra i suoi titoli un Master in Scienze Cognitive presso un’università straniera.
Lo psicologo conquistò la fiducia del ragazzo con convenevoli e manfrine, gli chiese un parere su alcune macchie d’inchiostro piuttosto equivoche e lo invitò a riempire un questionario a risposta multipla. La diagnosi non tardò ad arrivare: Remigio soffriva di un disturbo psicosomatico, anche se non fu possibile stabilire quale componente, la psichica o la somatica, fosse predominante. Non aggiunse altro.

Insoddisfatti da una spiegazione piuttosto vaga, Remigio e mamma Clara si affidarono alla psicanalisi. Una donna dagli eleganti boccoli e dalla montatura rosso fuoco, affiliata alla scuola ericksoniana, fece sdraiare Remigio sopra un lettino, abbassò le luci e lo accompagnò verso l’ipnosi. Le premesse parevano ottime, eppure, trascorsi alcuni minuti, la seduta fu bruscamente interrotta. La terapeuta si scusò: per quanto si sforzasse, non riusciva a sopportare l’odore nauseante che si sprigionava man mano che si addentrava nel subconscio del ragazzo!

Tutte le indagini furono concordi nello stabilire che non esisteva una cura al disturbo del povero Remigio. Non restava che accettare la situazione e adattarsi.
Al raggiungimento del quattordicesimo anno d’età, Remigio iniziò a frequentare il liceo, dove continuò a essere bersaglio di scherzi e battute. Il nuovo istituto presentava però un vantaggio: ospitava una comunità studentesca più variegata rispetto al precedente. Passeggiando per i corridoi, Remigio si rese conto che l’adolescenza è la più crudele delle età, a prescindere dal fatto che si odori delle cose che si mangia o meno.
Dapprima notò Margherita, una ragazzina timida della 2ªC, la quale, oltre ad avere l’abitudine di trascorrere ogni intervallo scrutando meticolosamente il pavimento, veniva derisa per un’insolita fobia verso i cucchiai di grande dimensioni. Conobbe poi un ragazzo del terzo anno, Luigi, famoso per indossare 365 giorni all’anno la stessa maglietta ritraente un gufo, oltre che per la propensione ad addormentarsi in qualsiasi luogo e situazione; infine si avvicinò al miglior studente della scuola, Simone, che a causa della sua incapacità a pronunciare correttamente la lettera “s” era noto a tutti come “Timone”.
Remigio rimase sbalordito dai nuovi compagni e volle rafforzare il filo invisibile che li legava invitando tutti e tre a cena.
I ragazzi giunsero al ristorante, si sedettero al tavolo e fecero le ordinazioni, dopodiché presero a chiacchierare amabilmente tra vivaci tintinnii di bicchiere. La situazione precipitò non appena il cameriere sopraggiunse con la zuppa ordinata dal gufo Luigi, la quale era accompagnata da un cucchiaio di grandi dimensioni. Margherita, vedendolo, emise un grido e corse fuori dal locale. Remigio e Timone si rammaricarono dell’accaduto, mentre il gufo Luigi non se ne avvide nemmeno, dato che da alcuni minuti si era appisolato con la testa appoggiata sul tovagliolo. Remigio passò il resto della serata ad ascoltare Timone che, forte del suo difetto di pronuncia, descriveva con fervore le raffinate tecniche di battaglia dei “toldati taraceni” e dei loro predecessori, gli “attiro-babiloneti”.

Il ragazzo che odora delle cose che mangia tornò a casa con la pancia vuota e con l’anima ripiena di una malinconia incurabile. Trascorse gli anni che lo separavano dal diploma in totale solitudine, escogitando gli stratagemmi più fantasiosi pur di rendersi invisibile agli occhi – o sarebbe meglio dire, al naso – degli altri.
A diciannove anni e con un diploma in tasca, Remigio si mise alla ricerca di un lavoro che gli permettesse di badare a sé e all’anziana madre. I gentili ormoni di ragazzo, tuttavia, venivano pian piano soppiantati dai feroci ormoni da uomo, rendendo il suo odore ancora più intollerabile. Una settimana intera di digiuno e un colloquio particolarmente brillante gli valsero un impiego come contabile in un’azienda specializzata nella produzione di macchinari per la stampa.
Sul posto di lavoro, Remigio si distinse per l’estrema precisione ed efficacia con la quale assolveva ai propri compiti. Per due anni gli affari andarono a gonfie vele, ma non appena iniziarono a rallentare, fu lui a pagarne le conseguenze.
I colleghi presero a lamentarsi del debole aroma che aleggiava in ufficio di prima mattina, memoria della cena della sera precedente. Il capo arrivò addirittura a incolparlo per una recente tendenza che aveva notato in clienti e investitori, i quali lasciavano spesso l’azienda con un’espressione nauseata.
A nulla valsero i tentativi di Remigio di ascrivere il calo dei profitti alla crisi dell’editoria su carta e a una congiuntura economica sfavorevole. Il direttore lo minacciò di licenziamento a meno che non avesse accettato di sottostare a regole più severe.
Le nuove disposizioni erano umilianti: un elenco di alimenti vietati a Remigio sarebbe stato affisso in bacheca, ben visibile a colleghi e superiori. Inoltre, prima di entrare in ufficio, il direttore lo avrebbe sottoposto a un esame olfattivo. Se non fosse stato ritenuto adeguato, una boccetta di profumo di pessima qualità sarebbe stata la soluzione d’emergenza.

Il giorno in cui venne investito dalla prima spruzzatina, Remigio andò a sedere alla propria scrivania e ripassò mentalmente tutti i torti che aveva subito nel corso degli anni. Nella lucidità regalata dalla rabbia, ebbe un’intuizione: esisteva una soluzione semplice e definitiva al suo problema, e si rammaricò di non averci pensato prima.
Il giorno successivo, a fine turno, bussò con discrezione alla porta del direttore, entrò dicendo “con permesso”, si avvicinò a piccoli passi all’uomo baffuto, fece un inchino, e se lo mangiò.
Al termine del pasto, Remigio si annusò il braccio con una strana eccitazione e scoppiò in una risata liberatoria. Avendo mangiato un uomo, odorava di uomo e basta. Finalmente era una persona normale! Finalmente era come tutti gli altri!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *