Al centro del muso aveva il filo di un tanga. Lo segava come la striscia di cotone quando diventa una cosa sola coi jeans. Accucciato su tre zampe, il cane continuava a leccarsi la quarta come le persone sognerebbero di fare pur di togliersi le cuciture dal culo. Nel complesso, il cane aveva l’aspetto di una mutanda strappata. Umidiccio come un cesto della biancheria, lingua della sete e naso come un piccolo sterzo. Era il cane di Infostrada, schiavo della pubblicità quasi quanto le persone. Non aveva idea che i cani finissero in televisione, sulle scatolette, nelle SPA. Si era ritrovato in città dopo un lungo viaggio al buio, ricordava solo un pizzicore alla zampa che non smetteva di leccare. La teneva in vita. Per una città come quella serviva avere tutte e quattro le zampe. Un cane senza nome era un pacco bomba. Tutti i Fido, i Taco e i Sansone si potevano tranquillamente disinnescare risalendo ai padroni. Ma quelli senza collare? Dovevano fare veloce. Scappare come dei ladri. Ciò non esclude che il cane di Infostrada non potesse avere un nome. Tanga.
Non gli piacevano gli umani. Il buio, il pizzicore, erano colpa loro. Di notte passava in rassegna tutte le case a schiera, le finestre brillavano, sotto le luci le famiglie si sedevano a tavola, sul divano, e nessuno le portava via. In quelle notti d’inverno, Tanga si sentiva senza pelo. Sapeva che se lo avessero visto, lo avrebbero trattato bene e messo al caldo. Non sarebbe stato quel caldo. Di sua madre ricordava a malapena il chiarore della pancia e i piccoli sussulti di quando lo allattava. Il cucciolo vagabondava da solo come una talpa cieca. A volte sentiva l’odore di altri cani misto a qualcos’altro. Le loro pellicce sapevano di salotti, detersivi e tappezzeria. Sembravano i vestiti chiusi negli armadi che alla fine prendono quella specie di odore confezionato. Le case si prendevano l’odore dei cani. Ogni tanto anche il pelo, ma senza strapparlo. Come il sonno che di notte si diverte a staccarci i capelli e a distribuirli sul cuscino.
Degli umani Tanga non capiva perché volessero abbaiare. Gli uomini volevano prendersi Marte, la Luna, lo Spazio, e anche la lingua dei cani. Sentiva nei bau orrende vocali; i cani non ci pensavano neanche ad abbaiare l’italiano. Mirko gli si avvicinò così, con un bau. Il cane se ne stava buono sul terriccio del parco a guardare un cocker nell’area recintata fare lo scoiattolo sulla gamba del padrone. Come se avesse paura che lo desse in pasto ai cani di taglia più grande. Tanga fece a Mirko una faccia da stupido umano. Il bambino tese il braccio sicuro di poterlo accarezzare, lui strisciò indietro con le zampe posteriori, Mirko non lo rimise a posto, proteso verso il cane come a dirgli è solo un braccio. Quel pelo andava accarezzato, e una mano sembrava l’unica cosa che potesse dargli un garbo. Gli occhi del bambino comunicavano con quelli del cane che non avevano spazi bianchi a differenza dei suoi, biancazzurri e con un moscerino morto che stava sparendo nella parte interna. Gli occhi di Tanga rasentavano il filo bianco sul muso senza sapere ci fosse. Eppure sentiva tirare. Avvisavano Mirko di posare giù il braccio altrimenti. Altrimenti? Era da accarezzare dappertutto, anche negli occhi. Faceva tenerezza. Quando sarebbe invecchiato la tenerezza sarebbe stata atroce, e il pelo sarebbe rimasto come quei cantieri abbandonati dove l’erba cresce solo per coprire preservativi, siringhe e tappi di superalcolici. Contropelo si diffondeva l’ululato del cane che avrebbe voluto essere, soffiava uguale al vento quando sopprime i campi di grano; un pastore tedesco, un cane lupo Cecoslovacco, un cagnolone. Tanga non aveva mai spinto il muso in alto; lo teneva sempre nascosto tra le zampe come se potesse perdere la sua biancheria. Mirko si sedette sul terriccio e aspettò con la fiducia di un bambino che desidera fare amicizia. Adesso il cocker dell’area recintata trascinava al guinzaglio il suo padrone, come se facessero un po’ a testa su chi dovesse portare l’altro e dove. Alla vista di Tanga, il cocker volle esaltare il suo portare a spasso l’uomo. Eppure i cani sembrano tutti così felici di avere un padrone; qualcuno su cui vegliare. Ciò che fanno i cani è rendere gli adulti di nuovo bambini, come se gli trasferissero la loro stessa cucciolaggine. I cani, anche i più piccoli, sono già badanti, dame da compagnia, braccia, occhi, sirene d’allarme. Mirko riprovò col braccio, ma Tanga andò via. Seccato come qualcuno che ti ruba il posto. Nelle giornate di sole, il cucciolo sentiva l’imbracatura dei raggi caldi e se ne andava in giro come se appartenesse a quella palla di fuoco. Gli piaceva il lungomare, la bava delle onde, i motoscafi. Incassava la testa nel buco del muretto e guardava. Qualche volta allungava la zampetta sulla sabbia e lasciava un’impronta. Non era mai andato a riva. Avrebbe tanto voluto nuotare, ma aveva paura. La gente in spiaggia si scioglieva nel sonno. Dormiva accanto al dindolò del mare, con il respiro irregolare per l’ansia che qualche pallonata gli centrasse la pancia. Tanga aveva il muso delle ragazzine in bikini, gli mancavano laccetti colorati e un po’ di appiccicume. Si passavano un frisbee. Ogni volta che lo vedeva volare, le orecchie gli si rizzavano.
Dopo il tramonto si sentiva più solo, gli umani erano un passatempo e nient’altro, carne poco pelosa e spesso tatuata. Tanga non sapeva che i cani finissero in televisione, sulle scatolette, nelle SPA, sul corpo della gente.
Mirko sbucò per caso dal portone di un condominio, vide il gradino gocciolante e capì che c’era stato un cane. Iniziò ad accasciarsi sotto le auto ferme nel vialetto, bau, le ginocchia sempre più nere, bau, niente. Forse era solo acqua. Tanga se ne stava in silenzio nascosto in un cespuglio, Mirko aveva qualcosa di strano attaccato al suo pelo, il cane non aveva mai visto uno zaino. Lo inquietava un po’. Continuando a indietreggiare nella siepe, a un certo punto sentì qualcosa di appuntito contro la zampa posteriore; il pensiero che fosse di nuovo quel pizzico lo terrorizzò e lo fece guaire. Vide le scarpe di Mirko infilarsi nel cespuglio, riempirsi di terra e pestare qualche foglia. Una leggera orticaria stava invadendo le gambe di Mirko: voleva grattarsi ma non voleva che il cucciolo scappasse. Il getto d’acqua s’innalzò come un mostro della terra che ne avesse abbastanza di entrambi: colpì Tanga che saltò inzuppato addosso al bambino, che a sua volta saltò indietro e finì sul marciapiede con il cane ancora in braccio. Con il pelo bagnato sembrava più piccolo e indifeso. L’odore del suo pelo e quello del bambino s’incontrarono. Erano lo stesso odore. Tanga si ritrovò a fare qualcosa che non avrebbe mai creduto, si ficcò nella piega del braccio di Mirko e continuò a tremare. Il bambino gli sentiva i cuscinetti delle zampe e gli occhi stretti nel buio della carne.
In cucina aveva uno di quei tavoli che Tanga vedeva nelle finestre delle case a schiera, e quattro zampe come le sue. Per un attimo del bambino vide solo le gambe, il resto sparì dietro una porta grigia che cacciava una debole luce. Quando tornò tutto intero, Mirko si abbassò e stavolta allungò di nuovo il braccio verso di lui: il profumo si prese la bocca di Tanga, che non aveva mai sentito così tanta saliva. Non sapeva nemmeno da dove arrivasse. A sua volta la saliva gli colò nelle zampe, e si avvicinò al cubetto di prosciutto. Tanga non aveva mai assaggiato niente di più buono.
Poi Mirko lo avvolse in un asciugamano. In salotto, il cucciolo la vide. Il bambino se ne accorse. Prese ad accarezzarlo solo con le dita, senza premere tutta la mano, dalla testa alla coda e viceversa. Era più corto di lui, il pelo come il burro, sembrava sgretolarsi sotto i polpastrelli. Tanga sentì l’odore. Doveva essere poco più grande di lui. Nemmeno quell’odore sarebbe più cresciuto. Allora Mirko si alzò in piedi, sempre tenendolo stretto, sempre accarezzandolo in quel modo sottile, e si avvicinò alla parete piena di foto. Era un cucciolo di Labrador, il muso cremoso, gli occhietti neri e felici sulle ginocchia di Mirko. Quando un cane muore, spesso gli adulti non ce la fanno ad averne un altro. Ma i bambini? Sarà che i bambini non conoscono il tradimento, ma conoscono il gioco. E la bellezza del gioco include sempre la possibilità di tornare a giocare.
Mirko posò Tanga sul pavimento, i due per un po’ si guardarono, poi il cane andò spedito verso ciò che aveva visto. La cuccia del piccolo Labrador era rimasta lì, soffice, verde e con ancora l’odore. Tanga fece un piccolo giro su se stesso, e poi si acciambellò.
Scattò sulle zampe appena lo sentì tuffarsi. I capelli bagnati gli si aprivano a tendina sul viso. Per qualche anno, Mirko non poté prendere troppo sole. Quello era l’orario in cui neanche i vecchi andavano al mare. Erano arrivati con un’alba perforante e l’acqua sembrava una distesa di grilli d’argento. Mirko ci aveva provato tante volte, ma Tanga non ne voleva sapere. Anche se il cane si metteva sull’attenti, non sarebbe mai corso a salvarlo. Questa cosa lo divertiva. Tanga ormai era un Border Collie. Ammetteva i suoi errori. C’erano due razze di uomini: gli umani e i disumani. Pochi padroni come Mirko, che lo lasciava libero di essere cane. Mirko? Mirko? Perché non si muoveva? Il ragazzino galleggiava a pancia in su con un cerchio di capelli intorno alla testa. Svegliati! Svegliati! Tanga prese la rincorsa ma a riva si bloccò. Si fece indietro prima che l’acqua gli bagnasse la zampa. Abbaiare era inutile. Non era sicuro respirasse. Il mare lo muoveva ma non lo svegliava.
In acqua si sentì più pesante, ingannato dal suo pelo, agitando le zampe qualche goccia gli finì negli occhi. Perché bruciava? Quando li riaprì, Mirko era sparito. Tanga provò ad abbaiare ma la bocca imbarcava solo acqua. Era un cane disperato. Voleva tornare a riva ma allo stesso tempo spingersi al largo e trovarlo. Più che nuotare, sembrava un anziano sopra la cyclette. Forse fu il suo pianto, o forse Mirko era sempre stato lì dietro di lui, che si rilassava steso sul mare con il silenzio dell’acqua nelle orecchie. È stupido, pensò Tanga. Perché gli umani vogliono sempre sdraiarsi dappertutto? Mirko sentì una cosa pelosa e scattò in piedi. Quando vide il suo cane che lo guardava agitando le zampe come se lì non si toccasse disse solo Così, Marley.