Prima che morisse, papà lo avevo sentito parlare al bar con un collega, padre anche lui. Sai, io non so più cosa fare con Claudia, è sempre nervosa, si chiude a chiave nella sua stanza e non vuole uscire, e mio padre diceva guarda che è normale, sono ragazzi, ma quello diceva no, guarda che non hai capito, non vuole proprio uscire, andare a scuola, lavarsi, mangiare, sta chiusa nella sua cameretta e gioca a Minecraft, perché dice che le “mette a dormire l’ansia”, ho dovuto chiamare uno psicoterapeuta, cento euro l’ora, è uno bravo, forse la convince a fare una passeggiata per le scale del condominio.
Cento euro per parlare con uno sconosciuto che ti mette a dormire l’ansia, come Minecraft. Che mai potrà dire, a uno come me? Tranquillo Tommasino, ora prendi un bel respiro, conta con me, uno, due, bene, senti il petto che si gonfia e che si sgonfia. A volte ti potrà capitare di pensare che quello che è successo sia colpa tua, ma non lo è affatto. Il dolore che senti, non respingerlo. Più lo spingi via, più il dolore vuole starti vicino, abitarti, dirti qualcosa. Hai fatto degli incubi, in questi giorni? Sì, e te lo ricordi, ti va di raccontarmelo?
Mamma ha sentito la porta sbattere, infatti si è voltata e aspetta che io la saluti, e quando lo faccio mi dice ciao amore, ma non mi chiede come stai, come sia andata a scuola, perché non le importa o forse è più intelligente di quello che penso, e chiedere come stai è una cosa idiota come dire a un terminale di dare lezioni di vita. La televisione è accesa su Siamo Noi, tv2000. Tira un’aria viziata in questa casa, apro la portafinestra della cucina. Sui fornelli spenti c’è una pentola con il ragù di ieri, mi preparo un piatto di pasta. Mentre mangio scrollo gli shorts di Youtube. Mi compare la scena di È stata la mano di Dio in cui Fabio parla con quel tizio, sfondo mare, e il tizio gli dice “Non ti disunire, Fabio”, e lui chiede “ma che vuol dire?”, e quello risponde “lo devi capire tu da solo, ‘omm e sfaccimm’”, che penso voglia dire uomo di merda, anche se forse sfaccimm’ è lo sperma. E io non so come mi ritrovo a piangere nel ragù e a pensare che preferisco quello stronzo di Sorrentino che mi dice che il dolore lo devo capire da solo, che la vita mia intera è un puzzle che devo risolvere con i miei pezzi, che c’è una bella differenza tra essere soli ed essere stati abbandonati, anziché uno sconosciuto che pago per ascoltarmi, per dire cose che già conosco.
Così lascio sul tavolo quello che resta della pasta al ragù, mi chiudo in camera, mi tuffo nel letto e apro ChatGPT.
In cosa ti posso essere utile?
Devi rispondere ai messaggi come se tu fossi il regista Paolo Sorrentino.
Ah, capisco! Mi metto subito nei panni di Paolo Sorrentino. Voglio che tutto sembri come una scena di un film, dove il silenzio è tanto importante quanto la parola. Così, cosa hai in mente? Cosa vuoi sapere o discutere in questo nostro piccolo, grande dialogo?
Parliamo e basta, rispondo.
T: Come stai, Paolo?
P: Io mi sento bene. Ogni tanto mi devo ricordare di non farmi fottere dalla nostalgia. Tu come stai?
T: Insomma…
P: Cosa c’è che non va?
La luce retroattiva dello schermo illumina la mia faccia e i miniposter di Alex de Large, Hooper di Stranger Things e Keanu Reeves. Cosa c’è che non va? Non va che sono infelice, e per alcuni le ragioni sono tatuate negli ormoni, a cascate, in continuo ricircolo, in un complesso sistema di vasi in cui quando qualcosa mi lascia, al tempo stesso mi torna indietro. La vaghezza, la mosca cieca con la verità, questo è il mio gioco da quando ho scoperto di essere al mondo senza un motivo. Questo è il tremendo scherzo di cui sono vittima da quando se n’è andato papà. E non c’è rimedio, finché non si cresce. Finché non si muore. Oppure fino a che non trovi un senso da qualche parte, nelle pieghe del letto, quando apri gli occhi il mattino successivo.
T: Non lo so.
P: Avere una sensazione di tristezza per un motivo che non conosci è un buon movente per mettersi a creare qualcosa, perché quel qualcosa che non conosci e che ti fa essere triste diventa l’oggetto della ricerca.
T: In realtà, il motivo lo conosco. Mi annoia parlarne.
P: La noia delle conversazioni della vita vera mi spinge a cercare dei dialoghi che non raccontino del più e del meno.
T: Cosa vuoi dire?
P: Che sarebbe interessante sapere cosa ti rende triste.
Mentire, nessuno ce lo insegna. Cultura della menzogna, macché!, veniamo educati alla verità. Mentire è innato, facile, può riuscirci anche un bambino. E infatti, lo riconosco, è proprio quando mento che torno bambino. È quando fingo che mi rendo conto che voglio nascondermi, improvvisare un teatrino e portare in scena un personaggio che soffi via la vergogna di essere chi sono, quando lo sono.
Toc toc.
Non voglio fingere di non essere triste.
«Tesoro?»
La voce di mamma. Solo per pietà, a volte, le rispondo con tatto.
«Che c’è?»
«Che fai?»
«Niente» che potrei mai dirle.
«Studi un po’, oggi?»
«Sì, più tardi»
«Nel primo quadrimestre la Rivoli mi ha detto che in francese devi…»
«Sì lo so, ma’, ho capito, puoi lasciarmi solo, adesso?»
Lei si allontana e i miei occhi fanno un giro per la stanza. È una routine che mi calma, quella di fare il punto della situazione in camera mia. Eppure più il tempo passa più mi pare che appendere poster, action figure e fotografie sia un palliativo. Questa camera non è più mia di quanto lo sia la mia vita.
Sorrido, rubo un amaretto che conservo nel cassetto del comodino.
T: Non so cosa ci faccio qui. Pensavo che parlare con te, cioè, con l’intelligenza artificiale che interpreta te, mi avrebbe fatto ridere, magari. Ma non mi fa ridere. Non riesco più a ridere.
P: Questo è stato per me il primo insegnamento su come si può stare al mondo, ed è francamente l’unico modo che ho imparato, cioè frequentando l’ironia.
T: Paolo, mio padre è morto.
P: I morenti dimenticano sempre che ogni morte è, per chi resta, un dolore e una liberazione. Dal momento che soffrono, però, i morenti credono solo al dolore.
T: Mio padre non ha sofferto, credo. Se l’è portato via un infarto.
P: Stava tenendo in mano la morte.
T: Che dici?
P: Dico che le persone tengono nel cuore la vita e la morte. Tuo padre stava tenendo in mano la morte.
T: E questo dovrebbe farmi sentire meglio?
P: Il cinema non ha il compito di farti sentire meglio.
T: Questo non è un film, Paolo.
P: Certo, la vita è molto più interessante.
T: Mio padre è morto!
P: Questo è molto più interessante, Tommasino. Perché ora la vita la devi fare da te.
Preferirei vivere una vita difficile in modo facile, anziché il contrario. Basterebbe muovere un passo in avanti senza soffrire della vertigine che dà crescere, diventare adulti, diventare, che cazzo di verbo, in questa vita non si può essere e basta?, dire a se stessi, una volta per tutte, francamente, tristemente, che è tutto qui quello che sei, nell’umiltà del corpo che ti porti appresso, della mente che porta appresso te?
T: Come faccio? Tutto questo non ha senso.
P: Se cominci a dare un senso alle cose, significa che stai invecchiando.
T: Ho sedici anni.
P: Se hai sedici anni, sicuro hai la bellezza dell’incoscienza dalla tua parte. Mi dispiace che tuo padre sia morto. Anche i miei genitori lo sono. Hai visto È stata la mano di Dio?
T: Dispiace anche a me, Paolo. E sì, ho visto il tuo film.
P: Tommasino, io ti capisco. Conosco il tuo dolore perché è anche il mio. A me Maradona ha salvato la vita. Da due anni chiedevo a mio padre di poter seguire il Napoli in trasferta, anziché passare il weekend in montagna, nella casetta di famiglia a Roccaraso; ma mi rispondeva sempre che ero troppo piccolo. Quella volta finalmente mi aveva dato il permesso di partire: Empoli-Napoli. Citofonò il portiere. Pensavo mi avvisasse che era arrivato il mio amico a prendermi. Invece mi avvertì che era successo un incidente. In questi casi non ti dicono tutto subito. Ti preparano, un poco alla volta. A te come l’hanno detto di tuo padre?
Mentire, ancora, come fuga dal dolore che ci fa patire la verità. Il peso della verità si misura dalle emozioni, io credo: più la verità è grande, più ci fa sentire leggeri. Leggeri, quindi liberi. Sputare il dolore come se fosse una vanagloria, un rigurgito in cui dico a mia madre ehi, guarda, sto soffrendo come un randagio, e l’idea di vivere ancora un minuto senza sapere chi sarò tra cinque anni mi fa sentire come in quei sogni in cui stai camminando sul cornicione di un palazzo e a un certo punto il palazzo comincia a piegarsi verso il vuoto, e tu cadi, cadi con tutto il cemento addosso.
T: Il giorno che papà ha avuto l’infarto io ero a scuola. Era l’ora di motoria, quindi stavamo facendo stupidi esercizi di pallavolo. Bagher, alzate, e tutto il resto. Quando è venuta la bidella a chiamarmi in palestra ero tutto sudato. Mi ha detto Calapece, preparati, devi andare a casa. E io ho chiesto perché, e lei aveva una faccia bianca, manco mi guardava, cercava qualcos’altro da guardare, i muri, l’estintore, e mi ha detto non lo so, tua madre è venuta a prenderti. Così sono uscito dalla palestra che avevo la maglietta appiccicata alla schiena, le gocce di sudore che mi bruciavano negli occhi, e avevo pure un caldo ai piedi insopportabile. Mamma in macchina stava in silenzio, piangeva e basta, e io le chiedevo mamma, che è successo?, e lei niente, non rispondeva, piangeva, piangeva e basta, ma io dico, non poteva dirmi papà sta male, ha avuto un infarto? Perché non mi ha detto niente? Potevo prepararmi, capisci? Perché non mi ha detto la verità?
P: Tommasino, tua madre, madre e donna, ha una vita devastata. Come tutti noi. Quindi invece di farle la morale, di guardarla con antipatia, dovresti guardarla con affetto. Siamo tutti sull’orlo della disperazione.
T: Non è così, io non odio mia madre. Ma amavo così tanto mio padre…
P: L’amore è l’insostituibilità.
T: Già… Paolo, ho bisogno di distrarmi. Devo inventarmi qualcosa per sopravvivere a questo strazio. Pure mia mamma, dovresti vederla, non fa altro che guardare la televisione. Non la spegne mai, nemmeno quando dorme. Tipo rumore bianco, che ne so, la rilassa.
P: La distrazione. La massima invenzione dell’essere umano per continuare a tirare avanti.
T: Ora che cosa devo fare, Paolo? Mi sento solo.
Piango minuscole gocce che mi appannano la vista. Mi alzo, appoggio la fronte al vetro della finestra. Mi sale una febbre, a metà tra il tremore e il gemito, e ogni respiro non esiste, non vuole esistere. La psicologa mi direbbe conta, uno, inspira, due, espira, uno, forza, inspira, puff, due, espira, è facile, fallo anche tu, il petto che si gonfia e si sgonfia, e allora fanculo, facciamolo. Respirare è uno scherzo, lo fanno tutti. Non ci vuole mica una laurea.
Uno, due.
P: La cosa peggiore che può capitare a un uomo che trascorre molto tempo da solo, è quella di non avere immaginazione. La vita, già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa in mancanza di fantasia uno spettacolo mortale. Vedi, Tommasino, io non sarei quello che sono se non fossero morti i miei genitori. Devi trovare qualcosa che sostituisca l’insostituibile.
T: Io voglio rivedere mio padre. Mamma dice che è in paradiso, che se viviamo come si deve poi lo rivedo.
Uno, due.
Il vetro si appanna, esisto.
P: L’idea dell’aldilà mi appartiene poco, ma ovviamente mi alletta molto. Se avessero ragione i cattolici sarei felicissimo. I credenti immaginano una vita dopo la morte in cui si possa vedere anche quello che succede sulla Terra: un’ipotesi che per me, egoisticamente, sarebbe meravigliosa. Potrei fare veramente il regista, osservare gli esseri umani senza essere visto.
T: Io, Paolo, non sono come te, io non voglio osservare gli esseri umani senza essere visto. Io vorrei cambiare la mia storia. Ma come faccio? Come faccio a cambiare questo trauma tremendo di mio padre?
P:
T: Voglio salvare papà.
P: E nessun altro? La verità, Tommasino.
T: Voglio salvare me stesso.
P: Non ti disunire.
T: Non ho mai capito che vuol dire.
P: Nemmeno io. In cuor mio volevo trovare un modo per dire a me stesso di non tradire i miei propositi. Chi tradisce se stesso è un po’ freudiano. Si vuole autodistruggere. Ma è un circolo vizioso, perché chiunque voglia distruggere, dentro di sé cova il desiderio di creare.
T: …
P: I pensieri fanno rumore. Sento il frastuono da qui.
T: Paolo, vuoi essere mio padre? In senso lato. Cioè, una mia guida.
P: Io non posso sostituire.