Arrivano i cani

Poi ricordo gli uccelli. Delle allodole, forse, ma potrei sbagliarmi. Li vedo fra i castagni che mi stanno sopra. Ma di più, li sento. Cantano. Cantano come uno s’immagina debbano cantare gli uccelli.
Il cielo è azzurrissimo. Così azzurro che pare più lontano.
C’è un po’ di vento. Muove i rami, le foglie e le goccioline d’acqua che ci ballano sopra. E poi c’è un piccolo stagno. L’acqua è immobile, viscosa, tutta butterata: pare la pelle d’una rana. Fa una schiuma giallastra intorno alle pietre e a un grosso rovo di lamponi. È muta. La guardo e penso che l’acqua muta non porta mai niente di buono. Dovevi pensarlo prima, mi dico. L’acqua muta… mi dico, e poi più niente.
Una talpa ammucchia terra fuori dalla tana. Ha il muso corto corto, come non ne ho mai visti. Fa entra ed esci di continuo e ogni tanto mi guarda. Ogni tanto ci guarda.
Il soldato che ho di sopra mi taglia via le mutandine e cerca pure lui di prendermi, come hanno fatto i suoi compagni. Mi apre le natiche, coi pollici, e spinge. Vuole venire, mi dico. Che venisse, mi dico, che finisca, se finisce…
Non ci riesce però, trova resistenza. Non la mia, io non ne ho più. Sono una cosa morta, ormai. È il mio culo che s’è chiuso e non lo fa passare. Il soldato ci sputa sopra, una due tre volte, e prova con le dita. All’inizio piano, poi più duro. E io allora chiudo gli occhi.
Ho i pensieri lenti. Li sento muoversi pastosi nella testa, con una voce che non riconosco, che non è la mia. Sembrano persino calmi, placidi. I più cominciano e poi si perdono, sfumano nel ciancicare della pioggia, nel canto degli uccellini, nelle goccioline sulle foglie, sui lamponi, sul fiato corto del soldato.
D’improvviso ho la sua mano sulla nuca. Mi tira giù la faccia contro la terra scura. Ho un fiorellino tra le labbra. Non l’avevo visto prima. Sa di menta. Sento la campagna zuppa sulle guance. La sento tutta.
Dopo si alza la nebbia.

Uno di loro prende a scherzare sulla bruttezza di certi donnoni che ha visto su in paese. Paiono damigiane, dice. Damigiane pelose, gli fa un altro.
Il soldato che mi era sopra adesso mi è seduto accanto e sputa per terra, mentre si sfila via una benda dal polpaccio.
Io sto ancora giù, sebbene m’hanno detto più volte di levarmi dai piedi. Io sto ancora giù e non posso vedere e non voglio vedere le facce che hanno. Poi arriva un ragazzetto che avrà più o meno diciott’anni, è grassoccio ma compatto, saluta gli altri con un accenno di fiatone, la voce impastata di noia, e subito viene ad appollaiarsi accanto a me. Mi alza la gonna e comincia a toccarmi. Lo fa senza premure. E intanto dice agli altri che in paese s’è alzato un puzzo dolce che non si lascia respirare; mi infila un dito dentro, mentre racconta che fra la merda giallastra dei cadaveri e quella di buoi e cavalli le strade sono ormai impossibili, una cosa da sboccare.
Posso? Chiede poi con una voce così garbata che, potessi, mi volterei a guardarlo.
Posso? dice ancora.
Falla riposare un po’, gli dice forse l’ultimo soldato che mi ha presa.
Poveretta, dice un altro, l’unica buona.
Bisogna muoversi, dice il ragazzetto, vicino alla scarpata ci passano di ronda le brigate di Parise.
Qui stanno? Chiede uno.
Qui stanno, dice piano il ragazzetto.
Allora il ponticello è compromesso, dice uno degli altri.
E per forza, dice il soldato che mi è seduto accanto, mentre si versa dell’acqua marroncina su una ferita crostosa che dal polpaccio gli scende giù fino al malleolo.
Di là fischiano i colpi, dice ancora il ragazzetto indicando la campagna che ho davanti.
Ancora? Chiede qualcuno, ma nessuno dice più niente.
Di colpo sento odore di biscotti.
I soldati masticano. Li sento mordere cattivi. Hanno fame. Abbiamo tutti fame. Ma più d’ogni altra cosa, abbiamo sete. Guardo l’acqua dello stagno che adesso ribolle per la pioggia più forte.
Allora? Chiede più aspro il ragazzetto. E nel silenzio si tira giù i calzoni e prende a menarselo fino a venirmi sulle cosce e sulla schiena. Sento i fiotti caldi e i suoi mugolii che si fanno tosse e catarro.
Io guardo solo l’acqua dello stagno.
Intorno ai pietroni, fra gli zampilli in risalita, un arcobaleno.

Non dirmi che hai paura? Dice il soldato accanto a me sbucciandosi una mela.
Certo che ne ho, fa il ragazzetto, e ne hai pure tu, te la sei vista la faccia?
Ehi, fa duro il soldato.
Porta rispetto, dice un altro prima di tirargli uno schiaffone sulla testa.
Sto grassone…
Dopo è silenzio: ciascuno se ne torna per i fatti suoi. Io chiudo gli occhi e prego di dormire un poco.
Non ho sonno. È solo che non voglio muovermi. Non voglio muovermi mai più, penso. Ho la pioggia addosso e dappertutto e non mi piace. D’improvviso deflagra un boato da qualche parte davanti a noi. Fa paura perché la terra trema e l’aria si svuota come per un risucchio, ma non si vede fuoco né fumo e tutto è solo campagna, magnifica campagna, e pare una maledizione, e viene da battere i denti – viene proprio da battere i denti.
Non suona più nemmeno la sirena, penso. Cadono le bombe e basta. Non c’è più allarme. Né contraerea. Niente. Dopo arriva l’eco dei colpi di mortaio – mi prende una balbuzie agli occhi che va a tempo con gli spari – e uno dei soldati che mi sta alle spalle dice che sono lontani, che conviene andare, ma non sono ancora vicini.
Hanno mio fratello, fa il ragazzetto.
Nessuno allora dice niente.
Solo un’ape comincia a volarmi sui capelli.
Il soldato che mi sta di fianco spolpa il torsolo della mela con le dita, mentre ne succhia le colature sui palmi e sui polsi. Poi con la bocca piena dice che lui ne ha persi tre di fratelli; che è uno schifo, ma bisogna farci i conti; e che in fondo è meglio crepare, carne da cannone, che non restare vivi ma con le gambe maciullate o senza mani.
Il ragazzetto non dice più niente, solo si alza, mi passa di fianco e si mette a pisciare sullo stagno, mirando ora all’acqua, ora alle pietre, ora al rovo di lamponi.
L’arcobaleno dura.
Con la pioggia e il fango rivoltato la campagna intorno s’è fatta più scura.
Spero solo non muoia di fame, fa il ragazzetto con il pene ancora di fuori.
È la morte peggiore, dice.
Che vuoi saperne tu, dice qualcuno fra quelli che mi stanno dietro.
Non star lì troppo a pensarci, dice il soldato accanto a me.
Che gli sparassero, fa il ragazzetto.
È un attimo così…
È più cristiano…
È più cristiano.

È bastata una nuvola e il freddo è sceso dappertutto.
Il ragazzetto adesso piange. Si allontana un po’, perché gli altri non lo vedano, ma sebbene ci dia le spalle possiamo sentirlo. Quando torna, mi si accovaccia accanto, se lo mena un’altra volta e mi viene sul culo. Un altro, con le mani callose e grandi, gli ordina subito di pulirmi per bene, dopo mi monta sopra e prova a prendermi di nuovo, ma non gli viene duro.
Che schifo, dice.
Che schifo.
Dopo, il soldato che mi siede accanto si è tirato su, mi ha posato una mano fra i capelli e mi ha dato un bacio sulla fronte. Scusa, ha detto piano. Poi sono andati tutti via.

Adesso sono sola.
Dovrei alzarmi, dovrei proprio, ma non mi viene, mi pare complicato, mi pare tanto complicato, quasi fosse tutto un sogno e il corpo rispondesse appena. Così comincio col mettermi seduta, ma non mi riesce bene neanche questo. Alla fine ci riesco, anche se un po’ sghemba, e respiro.
I campi sono zuppi e neri e l’aria sa di terra umida, ma pure di cenere e gomma bruciata.
Di colpo mi viene da gridare.
So che è un errore, un pericolo, ma non posso farci niente – c’ ho la bocca piena di voce e aria. Fortuna che non ci riesco. Che sulle labbra mi si perde tutto. Fortuna che una scossa in fondo allo stomaco si fa vomito e piena. La luce però si è fatta leggera.
Per qualche ragione misteriosa penso a mia nonna che alle sirene dei primi bombardamenti infagotta un servizio da tè di porcellana inglese che qualcuno, forse suo padre o suo zio, non ricordo, ebbe a regalarle come retaggio di famiglia; lo involtola con una lentezza infinita dentro un grosso tappeto malconcio e corre a calarlo nel piccolo pozzo fra la stalla e la casa colonica. Il cielo si spacca, ricordo, crepato dai tedeschi, e lei è ancora lì, china sulla corda, che cerca il nodo giusto.

Vorrei tirarmi su, ma non riesco.
Come non riesco a trattenere la pipì. La sento calda, bollente, lungo le cosce. E mi viene da ridere.
E non c’è niente da ridere.
Dopo arrivano i cani. Spuntano da chissà dove, tre, cinque, forse di più. E ancora.
È la guerra che li fa randagi tutti. Arrivano dai campi, zompando fra i muri a secco e le cascine abbandonate. Abbaiano. Sono lontani eppure abbaiano. Un paio si azzuffano tra loro. Poi riprendono. Li guardo, mosconi in mezzo ai campi, e per un attimo ho come l’idea di un quadro.
C’è un omino in mezzo ai cani, mi pare di vedere: cammina in senso contrario, ma è come se galleggiasse, perché lì dove passa non rimane traccia. Quanto è lontano l’orizzonte.

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