Vocabolario equestre

Il rumore degli zoccoli sull’asfalto mi infastidiva e di carrozze, al giorno, ne passavano decine e decine. Il balcone da cui mi affacciavo a osservarle era minuscolo, così come il monolocale stesso, in cui c’era a malapena spazio per una persona, figuriamoci per due. Avevo preso l’abitudine di confrontare i volti dei turisti con quelli dei cavalli che li scorrazzavano da una parte all’altra del centro storico. I primi sorridenti e rilassati; i secondi imbrigliati e affaticati. Mi sentivo come quei cavalli.
Dissi che sarei andata a prendere un caffè al bar. «Lo vuoi anche tu?»
Lei in tutta risposta disse che le era venuta la febbre.
Non andai a prendere il caffè. La rimproverai dolcemente perché non mi aveva detto che stava male e, una volta fuori casa, presi la direzione opposta a quella del bar. Comprai termometro e tachipirina e poi le preparai il pranzo.
Masticò il primo maccherone. «Ma ti piace senza sale, la pasta?» Chiese prima di tracannarsi un bicchiere di minerale.
«No», buttai giù un boccone, «ti ho sempre detto che non so cucinare.»
«Dovresti imparare. Come farai a vivere da sola?»
Mi strinsi nelle spalle.
Notai che non era più febbricitante. «Riguardo a stamattina…»
«Credevo che il discorso fosse chiuso.»
«Beh…» dissi rigirando la pasta nel piatto, «pensavo che potessimo andarci questo pomeriggio, al museo intendo. Stamattina ti sei addormentata e vorrei visitarlo insieme…»
«Ancora? Ti ho detto che mi dispiace. Cristo, non capisco perché fare tutte queste storie. Ti interessa un museo più di noi due.»
«Non ho detto questo…»
«Ah, no?» Prese a rollarsi una sigaretta con mani tremanti. «Perché quando ti parlo di cose più serie fai finta di nulla? Perché, cazzo? Mi rimproveri come se avessi ucciso qualcuno! Ci andiamo un’altra volta al museo, contenta?»
«Questo pomeriggio, allora?»
Una nuvola di fumo mi investì in volto. Mi allungai ad aprire meglio la finestra che dava sul balcone. Un cavallo nitrì in quell’esatto momento. “Aiutami, aiutaci”.
Lei si pulì la lingua da un pezzo di tabacco. «Dobbiamo andare dai miei genitori.»
La guardai, fissava il pavimento. «Ti è passata la febbre» mormorai.
Sbuffò. «Sembra quasi che la cosa ti dispiaccia. Dovresti esserne contenta. Sai, dovresti comportarti come se io potessi morire domani.»

Andammo a casa dei suoi genitori. Il giorno dopo mi portò al museo. Era chiuso.

«Se non ci fossi tu non saprei a chi lasciare Kiky» mi confessò prima di chiudersi la porta alle spalle. «Ci vediamo alle dodici.»
«Ciao.»
Non avevo mai avuto un cane prima. Kiky era ancora una cucciola e lasciava i suoi escrementi ovunque, io mi occupavo di tenere tutto pulito. Mi distrusse ciabatte e cuffie. Ma lei si sentiva più sicura se restavo in casa a sorvegliarla. Mi scriveva per sapere come andasse mentre era a lavoro. «Tutto ok» rispondevo.
Con l’arrivo di Kiky la casa mi sembrava ancora più piccola e iniziai ad affacciarmi al balcone più spesso. Alla mia destra si procedeva per la stazione, il supermercato e la farmacia, mentre a sinistra c’era il bar. Proprio di fronte, una sartoria aveva il cartello “chiusi per ferie” in vetrina. Non la vidi mai aperta. Non conoscevo altro di quella zona, la città mi era straniera e c’era sempre un impedimento che non mi permetteva di visitarla. Lei ci scherzava su. «Vedrai che imparerai ogni vicolo e scorciatoia.»

«Sta piovendo, dove vai?»
«Siamo invitate a pranzo da mamma.»
«Accompagnami dal veterinario.»
«Sono stanca. Restiamo qui stasera?»
«Ma chi bada a Kiky se non ci sei?»
Le carrozze continuavano a passarmi davanti, capii che dovevano percorrere un tragitto quantomeno centrale e famoso, data la mole di turisti che vedevo sparire dietro l’angolo. Mi domandavo cosa ci fosse dopo il bar. «Niente di che» mi disse lei quando glielo chiesi una volta.
Kiky abbaiò. La fissai soffiandomi una ciocca umidiccia dalla fronte. Il condizionatore era rotto. Kiky abbaiò ancora più forte.
«Ho capito, ho capito» la ciotola era vuota. Afferrai il pacco di croccantini da sotto il lavabo e lo svuotai interamente. Kiky ci si fiondò senza troppe cerimonie. Rimasi con il sacchetto tra le mani.
Un brivido mi corse lungo la schiena. Senza pensarci due volte, infilai le scarpe e presi la borsa. Lo scatto della serratura mi rimbombò in petto, consapevole che una volta chiusa non sarei potuta rientrare. Non senza che lei fosse tornata con l’unico paio di chiavi che avevamo, ma non avrei potuto fare altrimenti: Kiky era rimasta senza croccantini e io stavo uscendo per comprarne di nuovi. Inorridii, non sapevo se per il gesto o perché ero convinta di dover avere una scusa per poterlo compiere.
Scesi i gradini fino al portone come se fiamme immaginarie potessero ustionarmi da un momento all’altro. Quando chiusi dietro di me anche l’ultimo battente respirai profondamente. Il caldo che sentivo all’interno non era nulla in confronto a quello per strada, ma non mi importava. Ero finalmente fuori. Rimasi per qualche secondo indecisa, poi mi feci trascinare da una famiglia con le visiere calate sulla fronte e imboccai il misterioso angolo. Mi bastarono cinque passi, letteralmente, e mi trovai di fronte a una piazzetta stracolma di gente. Ogni angolo della piazza ospitava tre chiese e scoprii che, una volta attraversata, ci si ritrovava direttamente lungo il corso principale della città. Deglutii, riparandomi la fronte dai raggi del sole. Le gambe mi condussero nella chiesa centrale su cui svettavano tre cupolette rosse di foggia islamica.
All’interno mi sentii abbracciata dalla cruda pietra delle pareti delle navate, mentre i marmi cosmateschi splendevano sotto i miei piedi. Non so quanto tempo rimasi seduta, stranamente in pace con me stessa e con un solo pensiero in testa: era tutto troppo per essere “niente di che”.

Una volta a casa lei era già lì ad aspettarmi, mi urlò contro e pianse. Mi disse che si era preoccupata per me. L’abbracciai e le chiesi scusa. Una settimana dopo le parlai.

Entrai nel supermercato perché avevo bisogno di stringere qualcosa tra le dita. Non volevo che vedesse come mi torturavo le pellicine. E non volevo arrivare in ritardo, con il risultato che giunsi a destinazione con largo anticipo, anche per questo motivo mi ritrovai a vagare per le corsie del reparto delle bevande. Afferrai una bottiglia di succo d’arancia. Arancia rossa.
Poco più distante, file di barattoli di spezie erano sistemati con l’ordine di un esercito di soldatini. Mi sentivo come se stessi per andare in battaglia anche io, in un certo senso. Fissai la confezione col sale grosso.
«Ma ti piace senza sale la pasta?»
Avrei dovuto decidere cosa cucinare per pranzo. Corrugai la fronte, non sapevo nemmeno se ce l’avrei fatta a tornare in tempo a casa. Mi diressi verso la cassa, lasciando da parte questo pensiero, fortunatamente la fila non era molto lunga. L’ora sul mio telefono mi informava che era ancora presto per il mio appuntamento. Cacciai delle monete dalla tasca, la stessa in cui feci sparire lo scontrino insieme al resto. Avrei potuto comprare qualcosa da magiare da portar via una volta finito.
«Prendi tu le chiavi di casa.»
«Preferisco sapere che non stai aspettando fuori la porta nel caso facessi tardi.»
«Prendile tu, ho detto.»
«Va bene.»
Lo studio della dottoressa si trovava proprio nel palazzo accanto al supermercato. Non ero sicura a quale citofono bussare, sul pilastro d’ingresso ce ne erano un’infinità. Strinsi la mano sulla bottiglia, mentre con l’altra controllavo un messaggio appena arrivato.
sei arrivata?
sì, la sto aspettando.
«Salve. Lena?»
Fui così sorpresa dall’averla accanto che rischiai di perdere la presa sul telefono. «Sì, sono io.»
Le sorrisi. Era la prima volta che la vedevo, rimasi colpita dal suo fare sicuro e autoritario.
«Spero che non le dispiaccia anticipare di qualche minuto dato che ci troviamo già qui» mi disse «e che non sia un problema evitare l’ascensore, mi piace camminare.»
Le risposi che non mi dispiaceva e che no, non era affatto un problema, mentre la seguivo oltre il portone del palazzo e per due rampe di scale. Ogni gradino mi sembrava più alto di quello precedente. Il telefono lo avevo infilato in borsa. La bottiglia di succo d’arancia rossa la impugnavo come fosse un freno a mano.
Mi aprì la porta del suo studio: una stanza bianca con dei quadri dalle figure informi. Mi spaventai all’idea che potesse chiedermi cosa ci vedessi, ma non accadde. Invece mi indicò una poltroncina di ecopelle, il rumore che produsse quando mi ci accomodai era simile a un urlo gutturale. O forse proveniva dalla bottiglia di succo che, a un certo punto, avevo iniziato a stringere con entrambe le mani. Lei si sedette di fronte, su una poltrona identica. Mi sembrava ci fosse un abisso a separarci. La guardai aspettandomi qualche domanda, ma non ne arrivò nessuna. Le offrii un sorriso di scuse e iniziai a parlare. Le dissi che il senso di colpa mi dilaniava e che non mi sentivo meritevole del suo amore; che ero troppo confusa e che sentivo di star sbagliando ogni cosa. La dottoressa ascoltava in silenzio, annuendo di tanto in tanto.
Quando finii di parlare mi congedò e mi consigliò di prendermi del tempo per riflettere sul da farsi.

Alla fine avevo comprato dei panini per pranzo.
Approfittai del tempo insieme per raccontarle dell’appuntamento. «Penso proprio che possa aiutarmi a stare meglio» conclusi timidamente.
Lei si alzò per gettare le cartacce della salumeria. «Quanto tempo pensi ci vorrà?»
«Scusa?»
«Quante» scandì sbattendo il coperchio della pattumiera «sedute ti ci vorranno?»
Balbettai, le dita tremanti. «Non è qualcosa che posso prevedere.»
Mormorò un verso incomprensibile, mentre faceva scattare l’accendino. «Comunque avresti potuto dirmelo.»
La guardai senza capire. «Dirti cosa?»
Lei mi aveva già dato le spalle, sbuffando fumo fuori il balcone. «Che avresti comprato panini per pranzo. Ti avrei detto come volevo il mio.»
Sorrisi alla sua schiena e, asciugandomi le lacrime, realizzai che avevo ragione. Ero proprio come un cavallo. Uno con i paraocchi.

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