Il terrore di Enrico per le blatte era sempre parso esagerato ai suoi genitori. «Guarda quanto sono piccole rispetto a te», dicevano. «Fanno schifo, per carità, ma guarda quanto sei grande tu rispetto a loro! Perché fai così?».
Enrico era in effetti un bambino enorme, più alto di quindici centimetri rispetto ai suoi pari età e soprattutto più grosso e grasso di tutti loro. Ciononostante, gli bastava vedere una blatta sbucare da sotto la lavastoviglie per uscire dalla stanza. I genitori non avevano mai domandato ad Enrico per quale motivo avesse così paura delle blatte; se lo avessero fatto, lui sarebbe stato contento di rispondergli. Era da poco in grado di fare la cacca senza che qualcuno lo aiutasse quando un giorno, impegnato sulla tazza, sentì agitarsi proprio nella pozza d’acqua al di sotto delle sue cosce qualcosa che emetteva un rumore simile al tosaerba di papà, qualcosa che poi, voltandosi di scatto, avrebbe identificato come una creatura scura, antennuta, con un dorso corazzato capace di aprirsi come una portaerei rivelando due alette che potevano, lo avrebbe capito pochi secondi dopo, trascinare il resto del corpo via da quell’acqua piena di piscio per dirigersi contro la sua faccia.
Invece di interpellare il loro figlio (o almeno sistemare casa in maniera da non far tornare le blatte), i genitori di Enrico si domandavano: «Gli passerà?». «Ma come gli è venuto?». «Non è che fa così per dispetto?».
Lo portarono da una psicologa molto anziana e molto poco paziente. Nel corso delle tre sedute che lui, mamma e papà fecero con lei, la signora psicologa non faceva altro che sistemarsi gli occhiali e parlare con mamma e papà, mentre lui, Enrico, se ne stava seduto in disparte a giocare con dei vecchi Lego a cui mancavano sistematicamente dei pezzi, così che si trovava a comporre camionette dei pompieri senza ruote, giardini con zolle erose, wrestler a cui mancavano le mani.
Il problema non si risolse e diversi anni dopo Enrico si trovò chiuso nella doccia della casa della nonna proprio con una blatta. Una blatta grossa quanto il palmo della mano di suo padre, che strisciava sulle maioliche e puntava le antenne contro di lui. Mantenere i nervi saldi, respirare profondamente, concentrarsi su un unico punto ignorando tutto il resto, sono tutte cose che Enrico avrebbe appreso anni dopo, quando i problemi della vita si sarebbero moltiplicati come frattali e questa storia sarebbe diventata un aneddoto divertente. Ma Enrico allora era solo un bambino, dunque urlò. Nessuno poteva sentirlo, perché mamma e papà se n’erano andati alla pineta e nonna ormai ci sentiva poco e non si muoveva più.
La blatta svolazzò verso il bordo superiore del soffione. Enrico, appiccicato culo e mani contro la porta della doccia, gli occhi spalancati e le labbra serrate, era convinto che proprio dal soffione la blatta si sarebbe tuffata contro la sua gola. Doveva reagire. Con uno slancio di coraggio per cui non era noto avrebbe potuto afferrare il soffione e:
A) nel caso in cui se ne fosse rimasta impalata sul soffione, esibirsi in una schiacciata a una mano o bimane sulla creatura;
B) nel caso in cui fosse saltata da qualche altra parte, afferrare il soffione e sparare un getto d’acqua concentrato sulla creatura, scagliandola contro le maioliche.
Purtroppo per Enrico entrambi gli scenari richiedevano un’altezza minima di un metro e sessanta, eccessiva persino per un bambinone come lui. La situazione imponeva un momento di studio. Con la sua statura sarebbe riuscito a toccare il soffione solo saltando e afferrandolo al volo. Il soffione somigliava a una cornetta del telefono non solo per la sua forma, ma anche perché era collegato alla fonte (da qualche parte dietro la parete) attraverso un lungo filo metallico. Enrico avrebbe potuto strattonarlo per attirare a sé la cornetta, ma anche in questo caso il gesto avrebbe potuto attirare una reazione scomposta da parte della blatta. Al termine dello studio, Enrico optò per la ricerca di una via di fuga. Fece scorrere le dita sulla fessura della porta a soffietto della doccia e fece pressione. Scorrendola, quella avrebbe seguito il suo meccanismo d’apertura e lui sarebbe riuscito quantomeno a scappare. Ma la porta non si aprì. Qualcosa, alla sommità, bloccava il meccanismo a soffietto. La ruggine, le guarnizioni non proprio oliate… oppure una qualche schifezza che la blatta si era portata dietro! Ecco! La blatta aveva pensato proprio a tutto, compreso bloccare il meccanismo di scorrimento della porta della doccia. Enrico faceva pressione sulla porta-doccia, quella ondeggiava ma ogni volta, arrivata a circa un terzo della sua apertura, tornava all’indietro, come se avesse sbattuto su una parete gommosa.
Enrico sollevò gli occhi verso il soffione. La blatta non era più appollaiata lì sopra. Il tempo di girare le pupille ora a destra ora a sinistra, quindi di chinare all’indietro la nuca e puntare il soffitto, che qualcosa nella periferia sud-est del suo campo visivo lo portò a virare collo, testa e dunque occhi nei pressi della sua spalla. La blatta l’aveva attaccato. Gli penzolava sul ciglio della clavicola come un ballerino hip hop ubriaco. Enrico chiuse gli occhi, convinto che non li avrebbe riaperti mai più. Trattenne il respiro. Se si fingeva morto, forse la blatta lo avrebbe risparmiato. Non fu così. La blatta scattò a velocità folle lungo l’asse della clavicola e fu a distanza d’un bacio dal mento di Enrico, a cui non rimase che pregare, a mente, visto che sarebbe bastato socchiudere le labbra per permettere alla blatta di farsi breccia verso la sua gola. Quando arrivò al pezzo del tuo seno Gesù perse il filo e ricominciò. Non sarebbe mai riuscito ad arrivare alla fine perché altri pensieri bombardavano di continuo la sua mente impedendogli di concentrarsi sulla sua richiesta d’aiuto alla Madonna. Enrico era convinto: la blatta avrebbe trovato un modo per aprirsi una breccia tra le sue labbra e da lì si sarebbe calata negli abissi della sua trachea. Giunta lì avrebbe morso una ghiandola, una fibra, un organo, secernendo un veleno mortale che lo avrebbe paralizzato; oppure avrebbe proseguito la sua immersione, squarciando ciò che si trovava davanti, per poi bucargli anche il cuore. Muovendosi per quei sentieri della fantasia, Enrico trovò infine qualcos’altro. Quando aprì gli occhi capì che in quella cabina c’erano: lui, una blatta, le maioliche colpite dall’acqua. La soluzione gli sembrò basilare, come dovevano esserlo quelle che adottavano gli uomini primitivi. Ritirò in un ampio arco il braccio sinistro e aprì la mano come Big Show, il wrestler enorme e pelato, quando reclamava l’aiuto del pubblico prima di abbatterla sul petto del suo avversario. La blatta stava immobile, le antenne ritte. A Enrico non era mai sembrata così fragile. Chiuse gli occhi, preparandosi a colpire, quando udì un vociare provenire da fuori dal bagno. «Certo che…»
«Be’, sì.»
«E poi…»
Non è che Enrico riuscisse a sentire accuratamente il contenuto delle parole, ma a riconoscerne la fonte sì che ne era in grado: mamma e papà! Là fuori! E da quanto tempo stavano là fuori, esattamente? Eppure lui aveva urlato, almeno all’inizio, dato che poi aveva serrato le labbra per impedire alla blatta di entrare dentro di lui. Aveva urlato e non l’avevano aiutato.
Riaprì gli occhi. La blatta non era più a portata di schiaffo né da nessun’altra parte nella doccia.
Enrico finì di lavarsi e dopo poco uscì dal bagno. Passo dopo passo, mentre s’avvicinava al salotto, riprese confidenza con il concetto di tempo. Nel salotto trovò sua nonna e, seduti sul divano di fronte, i suoi genitori. Enrico li interpellò e loro gli dissero qualcosa.
Lui dubitò di loro, forse per la prima volta in vita sua.