Pleroma

Il sole è pallido di latte e cenere e la stanza minuscola di Linda si annacqua di biancore. La ragazza è già in piedi, aspetta che la superiora si ritiri al suo studio. Nel frattempo controlla la borsetta nera, ci infila dentro una mano trasparente – l’acqua corrente dell’istituto con cui se le lava è più torbida dei suoi polsi, – e ricerca con tremori da animale i suoi oggetti, elencandoli a fior di labbra. Un rosario in legno a grani grossi sufficiente per sette preghiere, dei fazzoletti, due piccoli sacchi di legumi. Appese a una nocca vi erano le chiavi della sua stanza e del bagno, impiccate in un unico cerchio dargento. Linda guarda il dispositivo di allarme antincendio incastrato al soffitto, la sua spia rossa intermittente. Ogni tanto sogna le crepe agli angoli della camera allungarsi fino a quell’aggeggio e si ritrae spaventata sotto le lenzuola: crede possa crollarle in faccia. Ma quando si sveglia e si asciuga il sudore dall’attaccatura dei capelli, lo scopre ancora lì immobile. Appena Linda poggia i piedi sulle ciabatte bianche, ringrazia Dio di non avere fatto cadere il crocifisso sulla sua fronte. Lei immagina spesso di rompersi la testa. Mentre ascolta con attenzione l’ispettrice dileguarsi, Linda cerca di non pensare che invece avrebbe voluto che il crocifisso le sbattesse dritto sulla fronte quella mattina, con una certa ironia che di fatto non potrebbe cogliere. Ha disimparato la risata da qualche anno, poiché le fu presto chiaro che è il disprezzo a portare avanti il suo cammino verso le parti impolverate dell’anima. Bisogna mostrare le narici ai diavoli dei corridoi tra le stanze di cristallo.
L’istituto ha alte facciate rosa macchiate di piogge acide, scorticate veneziane verdi, soffitti bianchi infestati di muffa. Linda si chiede spesso se Dio possa vederla attraverso la muffa. Lo fa con innocenza, ma porta in sé una rudezza inevitabile, quella dei bambini puniti. Lei scoppia di silenzio.

Linda scende per le scale, i suoi mocassini rimbombano fino al piano terra, ma non li sente: c’è il ronzio. È un ronzio di rimprovero che trema dentro le pareti, è una tensione elettrica di rame, che corre crudele fino all’ultima rampa di marmo. Lì riposa il quadro retroilluminato della Madre. Linda ha il cuore che batte dappertutto; non sopporta di trovarsi sopra di lei, ma rallenta lo stesso la sua corsa, perché teme l’esserle vicina. Tiene le braccia incrociate, le mani serrate tra costole e gomiti, desidera cadere. Questa potrebbe essere la volta buona. Spesso, inciampando sui gradini, lei e le sue compagne finiscono per schiantarsi contro la colonna bianca di gesso all’angolo in cui termina la rampa di scale. Il pilastro porta una miniatura grezza della Pietà sulla cima piatta, il modello è sporco di impronte grigionere e scheggiato. Il petto di Cristo e il volto della Madonna sono sfigurati dalle dita bagnate di lacrime delle ragazze che li strofinano per scusarsi di averli urtati. La Madre si può già scorgere da vicino la colonna: il viso è quadrato e dipinto d’ittero, i bordi degli occhi fatti di pennellate grosse e nere, dello stesso colore sono le due pupille sgorbie schizzate di acrilico bianco. È piatta e seria, con la cuffia chiara che le segna a metà la fronte, e il velo nero come un’ombra di porta buia. Appesa al collo grosso, senza pesarle, un crocifisso nero e bronzeo. La Madre è inscatolata: è circondata da una cornice spessa, per permettere la retroilluminazione. Una lampadina bianca, non intensa, le sfrigola sul mento e si irradia circolare per tutto il quadro. Richiama un certo squallore, specialmente l’interruttore che le sta sotto, macchiato di vernice sulla placchetta. Linda è tutta un bruciore, dalle gengive ai muscoli scarni delle cosce. Fugge senza guardare il dipinto, cerca di alzare una mano alla fronte ma le arriva appena alle ossa sopra il colletto abbottonato. Un segno della croce mutilato è ancora più grave del silenzio. Presa di vergogna, Linda scappa via dalla porta di emergenza, gettandosi contro la maniglia col busto intero.

Non ha segnato la sua uscita in portineria: non trovando nessuno a fare la guardia, ha soltanto gettato le chiavi nel cassettone. Non le importa, starà via per poco. Linda aveva provato ad assentarsi per l’intero fine settimana, come facevano le sue compagne. Appena diventano interne, di solito le ragazzine piangono perché non vogliono rientrare nell’istituto. Lei non laveva mai fatto, anzi, tornare dai suoi genitori era diventata una violenza alla sua anima, ai suoi sforzi per ripulirla. Si era dovuta ingegnare: conserva nella sua vecchia camera da letto soltanto tre cambi di biancheria, un paio di scarpe che le limano all’osso il retro delle caviglie, nessun vestito che possa indossare, tranne un pigiama che le causa irritazione alla pelle.
Linda cammina lungo il cortile con fatica e la vista annebbiata, i suoi genitori sono già arrivati, ha sentito i freni della macchina fischiare e il padre borbottare qualche lamento al riguardo. Si spinge contro il cancello arrugginito e sale sull’auto. Linda non ricorda che viso abbia suo padre, dato che non lo guarda; se lo sogna, è coperto da un guanto d’ombra. Crede porti i baffi lunghi, ma non ne è sicura. Vede le spalle coperte di forfora, le mani salde sullo sterzo sembrano di quello stesso cuoio bruno. L’odore del veicolo è diventato una novità per la ragazza, ma ricorda di averlo dato per scontato durante la sua infanzia. Da quando è entrata nell’istituto riesce a riconoscerlo tra gli altri profumi, è coriaceo e gelido. Linda strofina le mani sulle braccia, elettrizzando la peluria rada con la lana che indossa.
«Hai freddo, bella?» chiede la madre. Si guardano dallo specchietto retrovisore, la signora regge sul grembo una busta regalo blu. «No no.»
La ragazza tossisce piano, è la prima volta che parla a piena voce dalla sera precedente. La signora è sorridente mentre le porge una confezione lucida. Linda inspira a tratti tra la saliva vischiosa; ha già la nausea, vorrebbe lanciarsi giù dall’auto in corsa. Accettare i regali è sempre stato un problema, l’inizio di una malattia maligna. Il senso di colpa nasce e si gonfia in gola prima di infettare ogni arto e diventare febbre. Rifiutare invece è pulizia, gratifica agli occhi di Dio.
«Non credo di volerlo.»
Linda ritira le mani sempre più vicine al petto per non sfiorare la busta.
«Ma non sai nemmeno cosa è. Aprilo!»
La ragazza nasconde a malapena la tachicardia. Il padre fa un verso gutturale per schiarirsi la voce, poi «Non fare la stupida, prendilo», dice. Non rimprovera, pare interessargli poco. Linda trattiene il fiato e prende tra le dita tremanti il regalo. Il sorriso ritorna sul volto della donna, è compiaciuta mentre la ragazza apre la busta. Vede dei vestiti nuovi, delle calze lunghe e nere, sente di rovinarle solo sfiorandole.
«Oggi vengono degli amici a pranzo stavo pensando che hai solo vestiti vecchi.»
«Non ho bisogno di vestiti nuovi, i miei vanno benissimo.»
«Sì, lo so, stavo solo pensando che sarebbe carino farti vedere sistemata per l’occasione.»
Alcuni secondi di silenzio, l’uomo carbura qualche pensiero agitando la mano per aria.
«Onora il padre e la madre.»

Mentre Linda si occupa di voltare lo specchio sulla scrivania verso il muro, sua madre entra in camera. Porge alla figlia una confezione della grandezza di un dito, di cartone nero. «Volevo darti anche questo ma non devi usarlo se non vuoi.»
La condotta della giornata si è rovinata irreparabilmente e se ne percepisce la rassegnazione, ma le mani trasparenti tremano ancora mentre tirano fuori dalla minuscola scatola un rossetto rosso. Ha la forma di un proiettile di plastica nera e lucida, con una fascetta dorata alla base del tappo. La madre prende tra le dita le punte dei capelli tranciati della ragazza e le strofina. È amareggiata, le mancano le vecchie ciocche lunghe come fossero state sue. Spesso si lamentava del taglio, si chiedeva come mai non chiamassero dei parrucchieri anziché lasciare un paio di forbici spuntate in mano alla suora più anziana dell’istituto.
«Va bene, basta così.»
«Non vieni di là?»
«Tra poco, ora ho da fare.»
Linda apre la borsa. Ha la bocca piena di saliva e le vertigini. I muri bianchi intonacati male vorticano tra un occhio e l’altro, così utilizza solo il tatto per recuperare i suoi sacchetti di legumi secchi. Li getta sul pavimento di fianco al letto e ci poggia sopra le ginocchia già blu e ferite, le fosse preesistenti si adattano alle rotondità dei semi. Affonda i gomiti sul materasso con le mani giunte, finché le nocche non le toccano la fronte. Assieme al dolore a ogni giuntura, prova un sollievo chiaro che parte dal fondo dello stomaco e si propaga sottile come una patina acquosa fino alla testa e ai talloni. Le labbra si muovono appena, si scorgono i denti di perla agitarsi, lei sussurra “grazie scusa grazie scusa grazie scusaamen”.
Gli amici della coppia anziana sono rimasti emozionati per poco, immaginando qualche ingresso solenne in velo e veste nera, occhi azzurri e ciuffi biondi slavati scappare dalla cuffia. Il tempo è passato e della Linda bambina non è rimasto granché. Dove si figuravano il volto bianco piuma velato di calma da angelo serafino, si sono ritrovati una faccia segnata di sonno, gli occhi bui e umidi di animale predato. I capelli cadono a ciuffi di lunghezze diverse sul viso, le gambe ossute sono visibili e coperte di lividi di ogni colore. L’espressione che le tiene insieme la faccia è di terrore. Due coppie di genitori ansiosi tenevano stretti per le ascelle i loro bambini, le gambe corte ciondolavano per aria, volevano che la suora li prendesse in braccio. Ma appena vista quella creatura trasparente, una struttura di pianta senza foglie, hanno lasciato correre via i bambini per il pavimento. Non sanno pensarlo, tantomeno dirlo, ma che insulsa illusione deve essere questa grazia divina, se una devota è malata così. Certo, è sottile e dura come un bastoncino di legno, non un corpo a loro comune – ma niente di diverso da chi si scorge per sbaglio in una camera d’ospedale.
Linda mangia un piatto di riso al finocchio, è insipido e rimane incollato ovunque, ci mette molto a masticarlo, in cinquanta bocconi potrebbe finire un rosario. Una donna giovane con le guance gonfie fino agli occhi spezza con le mani una fetta di carne unta e porge un filamento magro alla sua bambina. La piccola sta giocando con un cellulare mentre mastica con rudezza vitello e patate. I piatti di porcellana e le bottiglie di vino non toccano mai la tovaglia durante tutto il pasto. Fluttuano di mano in mano, arrivano pieni e vengono scaricati nel lavello in cucina in pochi minuti. Gli odori di animali e verdure si susseguono nauseando la ragazza trasparente, che prende sorsi minuscoli di acqua ogni tanto, fatica anche a deglutire. Cambia espressione soltanto quando vengono posati sulla tovaglia sgombra dei vassoi dorati coi bordi a onde, che sfrigolano di riflessi bianchi sotto le luci artificiali. Sono pieni di dolci piccoli accozzati tra loro, molti salivano glasse colorate e scoppiano di crema, altri, più ruvidi e freschi, sono ripieni di frutta. L’odore di burro, uova, vaniglia e fragole soffoca Linda. Pensa che potrebbe mangiare uno, ma solo quando avrà potuto conficcarsi simultaneamente un coltello sulla coscia. Il suo sangue doveva riempire chissà quanti cestini di pasta frolla per liberarsi da quel piacere disgustoso.
Linda si alza dal tavolo e nessuno se ne accorge. Le voci vengono immediatamente ovattate dalla porta chiusa, e il sollievo è istantaneo. Si accorge della carta da parati a righe rosa e gialla, dell’unico grosso mobile in stile liberty che sua madre aveva trovato a uno sgombero. Nella camera da letto cerca i sacchetti di legumi invano, sono scomparsi. Non li trova nel cassetto della scrivania, non sono nella borsa e nemmeno sotto il letto. Deve trovare qualcosa di affilato su cui poggiare le ginocchia, o il soffitto le cadrà in testa e morirà. Dal terrazzo sul retro, vede il pomeriggio grigio e ventoso mormorare tuoni lontani oltre i palazzi, sulle montagne blu. Cerca attrezzi da giardinaggio, delle piccole zappe sarebbero ideali, ma si potrebbe accontentare dei poggia vasi coi motivi in rilievo. I vasi esposti lungo la ringhiera sono troppo grossi, in terracotta massiccia, contengono chili di terra arida rigidissima, rovinata dalla negligenza. Nel grosso armadio di plastica all’angolo, Linda rovista tra i contenitori impolverati, ma è troppo buio. Accende la luce esterna e la grossa lampada bianca ronza, lasciandola immobile col dito premuto contro l’interruttore sporco di cenere. Il vibrare elettrico le riempie la testa, rivede una cornice di porta buia, uno sguardo fermo di rimprovero. Si volta quando sente dei passi lenti strusciare contro le mattonelle. È il cardiologo di suo padre, un medico che non sembra mai guardarti personalmente. Così succede con le persone che incontrano troppa gente durante il giorno. Non ci si sente nulla davanti a loro. Linda lo pensava già quando era molto piccola. Con Dio è sempre stato diverso, ma non è capace di spiegarsi, e anche quando ci prova, si innervosisce e dopo piange di commozione e colpevolezza. Il dottore porta tra le dita tozze un dolce dentro un cestino di carta bianco e rosa, osserva un punto indefinito oltre la testa mora della ragazza. «Linda», la richiama. «Maddalena», lei sussurra mentre lascia andare il braccio lungo il fianco.
Non si chiama Maddalena. Non si chiamerà così ancora per un po’. Ma si è convinta di doversi abituare, le sembra giusto. Non funziona con nessuno in ogni caso, si è solo intestardita. E quando finalmente otterrà quel nome, non ci sarà a chi farlo pronunciare.
«Va bene, Maddalena, che ne dici di pensarci domani al giardinaggio? Ora è buio.»
Linda annuisce, si passa le mani lungo la gonna nuova, sembra sorpresa di toccarsi le cosce per sbaglio.
«Tieni, mangia questo. Avrai le mani tutte impolverate.»
L’uomo porge alla bocca della ragazza il dolce, lei lo morde e lo spinge intero dentro la bocca col dorso della mano. Rimane così, senza morderlo, con le guance gonfie. Il cardiologo non la sta guardando, osserva corrucciato la luce accesa e si affretta a spegnerla. Il ronzio finisce. I rimproveri si estinguono assieme all’ultima scintilla bianca. «Bisogna staccarle, le luci, si consuma assai.»
Il medico deforma le parole tra le labbra strette per bruciare la punta di una sigaretta che vi tiene in mezzo. Linda mastica, gli occhi le si riempiono di lacrime mentre il burro le scivola sulla lingua, e il sapore del tuorlo d’uovo viene coperto dalla crema alla vaniglia e latte.
Il dottore poggia su di lei uno sguardo di tenerezza, la vecchiaia lo ha privato di ogni inquietudine.
«Rientra che c’è freddo.»
La ragazza fissa il pavimento rientrando in casa, l’uomo continua a fumare.

Nella cucina finalmente deserta, i vetri delle finestre sono pieni di nero. Tra i cumuli di piatti sporchi e spazzatura impilata, i dolci riposano sotto fogli di carta lucida. Linda prova fastidio dentro quei vestiti, li sta indossando sul suo corpo lurido, caldo nonostante sia novembre. Il danno è stato compiuto e tanto vale sporcarsi di ogni cosa, se una colpa non è più profonda di un’altra ancora. Sfila un dolce di sfoglia dal vassoio e lo mangia intero. Ha le dita ricoperte di zucchero a velo e cacao, passa subito le mani sotto l’acqua corrente alla massima pressione. Insapona ovunque, raschia le unghie tra loro, bagna i polsi, miliardi di bolle di schiuma sono occhi che la giudicano. «Linda, fai correre meno acqua.»
«Sì, scusa.»
Afferra dalle mani di sua madre lo straccio che le porge, si asciuga. «Maddalena.»
La donna storce un po’ la bocca. Accende una sigaretta sottile sedendosi al tavolo ancora coperto dalla tovaglia sporca di briciole, vino e olio. «Non hai nemmeno tolto le scarpe.»
«Vorrei andare via adesso.»
«Va bene, fatti un giro e vedi se dimentichi qualcosa mentre chiamo tuo padre.»
Linda va via, raccoglie la sua borsa dal pavimento e volta lo specchio sulla scrivania come lo aveva trovato al mattino. Raccoglie il rossetto, lo porta con sé. Lava i denti fino a farsi sanguinare le gengive. Sua madre entra nel bagno, la guarda sputare schiuma rosa in silenzio; si avvicina veloce appena solleva la testa dal lavandino. Afferra il volto della ragazza e le passa il pollice sui denti. «Che stai facendo? Ti fai male, hai il sangue.»
La donna sta piangendo e il trucco le cola sulle guance impastandosi tra nero, rosa e giallo. Linda non sa se sta piangendo, ha la faccia tutta bagnata. Mentre la madre rimane seduta sul gabinetto a piangere, Linda corre in cucina. Lascia cadere dentro la borsa tre dolci sfusi e chiude con violenza la cerniera. Si asciuga il volto e sale in auto con suo padre.

Nel cortile dell’istituto è così buio che ogni cosa è nera. Linda raggiunge la luce fioca della plafoniera in portineria. Dovrebbe essere in tempo per la cena. La suora del turno delle diciannove e quarantacinque è avvizzita e lenta mentre cerca le chiavi da riconsegnarle. «Credo di averle lasciate nel cassettone stamattina.»
«La signora delle pulizie lo ha svuotato, abbi pazienza.»
Linda annuisce e guarda verso il salotto alle spalle dell’anziana. Vede una fila di compagne affrettarsi alla sala da pranzo da una porta spalancata. Una testa mora è fasciata e insanguinata, si tiene la fronte con una mano mentre cammina lenta, aggrappandosi al braccio di un’altra ragazza.
«Eccole.»
La suora stava agitando le due chiavi già da qualche secondo. La ragazza non arriverà a cenare. Sale le scale, nota un sacco azzurro per l’immondizia messo di lato. È trasparente, dentro c’è la miniatura della Pietà completamente fratturata. Si abbassa sulle ginocchia e cerca di premere la plastica contro il gesso scheggiato e sporco di sangue per guardarla meglio un’ultima volta. È il frusciare che la mette in allerta, deve fare silenzio o l’ispettrice potrebbe sentirla dal suo studio. Restando immobile, rimane solo il ronzio. Solo questo sa fare, quel quadro schifoso. Linda si alza e sente i dolori alle ossa, le ginocchia sbucciate, lo stomaco che non sta più zitto e copre quel suono di elettricità. Tira fuori un dolce dalla borsa sporcandosi tutte le dita, lo mangia mentre sale le scale, raggiungendo la Madre inscatolata. Si avvicina a lei, la fissa negli occhi di acrilico mentre mastica ancora. Si asciuga le labbra umide e recupera il rossetto, sporco e unto sulla confezione, scosso assieme ai bignè con la panna. Cerca di disegnare la forma delle labbra toccandole man mano, ora ha i polpastrelli rossi. Bacia la Madre attraverso il vetro caldo, le sue dita strisciano sulla cornice, tremano fino all’interruttore. Spegne la luce, lasciando delle lunghe impronte di rosa. La Madre da buia è ancora più brutta: è volgare, se potesse parlare direbbe che ha fame e che si annoia lì dentro. Linda va via disgustata, passa accanto alla colonna di gesso nuda. Sfila il suo maglione da sopra la camicia e i piedi feriti dalle scarpe taglienti, lascia tutto in mezzo ai gradini. Se qualche scema ci inciampa e si rompe la testa, è colpa sua che non guarda a terra. Raggiunge la cabina telefonica del terzo piano, che non usa mai nessuno. Le altre ragazze preferiscono quella al quarto, dove l’ispettrice non sale mai. Compone il numero di casa, mentre la cornetta squilla si specchia alla finestra. Passa il dorso della mano sulla bocca. Sposta la riga dei capelli da un lato e dall’altro, ma non si posano mai in ordine.
«Pronto?»
«Ciao mamma, sono Linda.»
Ha il volto impiastricciato di panna, rossetto, briciole. Ma sorride un po’. Dietro la testa, sopra i palazzi, nel cielo nero, brillano il doppio delle stelle.
«Puoi far tornare papà a prendermi? Qui non ho più nessuno.»

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