Glottide

Sessanta
Erano quarantasette virgola cinque i secondi che intercorrevano tra un abbaio e l’altro. Un tempo calcolato così tante volte da risultare tedioso. Avrei voluto che aumentassero i secondi, che si potessero quietare quei rumori mattutini. Ma nulla. Mi affrettai a prendere un taccuino e una penna. Per rilassare i nervi, decisi che quei secondi dovessero essere utili. Inventai un gioco. L’obiettivo era colmare l’intervallo privo di suono e farcirlo di materiale non verbale. Trovai la sostanza perfetta, un silicone isolante che non lasciava spazio nemmeno a una molecola: le parole. Allabbaiare del cane avrei dovuto scrivere dieci parole diverse. I campi semantici potevano essere simili. Non dovevano mai iniziare con la stessa lettera. Non potevano esserci ripetizioni. Alla fine di ogni parola, un punto e virgola. Dopo la decima parola, posavo la penna. Il cane abbaiava e ricominciavo. Mi divertiva da morire.
La prima volta scrissi: AMORE; TAURINA; PERDITA; SANGUE; FONDALE; CORTECCIA; LUNA; ROSSO; GLOTTIDE; MORTE.
Scrivevo intere pagine di parole. Le rileggevo spesso, alla ricerca di un incastro che sapesse calmarmi. Non trovavo mai la combinazione giusta. Gridavo quando sentivo che il tempo per scrivere era terminato, mi fermavo e riprendevo a pensare. Il primo giorno d’autunno aprii invano un taccuino dalla copertina gialla. Nessuna parola venne scritta su quella prima pagina, nessun suono da intervallare. Una polpetta avvelenata uccise il mio gioco. Non toccai mai più una penna. Rimaneva, per me, solo il silenzio.

Quando avevo dodici anni mia madre era convinta che prima o poi sarei morto annegato. Passavo molte ore in acqua, incurante del mio corpo che si restringeva, dei miei polpastrelli striati, della pelle arricciata e dei capillari irritati. Mi rasserenava immergere la testa, sentire i suoni ovattati e provare la sensazione di bruciore agli occhi. Immaginavo vista dall’alto la mia sagoma immersa, i miei capelli fluttuanti nell’acqua e la mia schiena bianca. Ero parte di quella dimensione liquida, coinvolto nel moto delle correnti. Sott’acqua, con le guance a palloncino, contavo i secondi impiegati per consumare l’ossigeno nei polmoni. Mi fermavo sempre tra i quarantasette e i quarantotto.

Leggevo un saggio sulla deforestazione dell’Amazzonia la mattina in cui pensai che avrei dovuto sfruttare quei secondi in apnea. Avrei potuto creare combinazioni casuali di parole. A darmi il ritmo non ci sarebbe stato un cane ma avrei potuto usare i battiti del cuore. Uno per parola. Forse era troppo presto. Sul tavolo della veranda, posizionati ai vertici di un triangolo isoscele, cerano: una tazza nera di caffè rancido, lorologio di Sia scheggiato sul quadrante e una matita consumata. Il libro era capace di farmi ascoltare lo scoppiettio della legna bruciata. Le membra pelose infuocate degli animali mi scorrevano di fronte agli occhi. Dovevo smettere di leggere. Tutto veniva inghiottito dalle fiamme, e non esisteva acqua per fermarle. “E se ci fossi stato io?”, mi chiedevo mentre già annusavo lodore di cenere proveniente dal mio corpo. Lo chiusi.

Cinquanta
La fregatura di quando muore qualcuno che ami è il combattere la voglia di seguirlo. Una coppia di anziani che conoscevo era morta a distanza di poche ore. Prima lei, tumore al cervello. Dopo lui, arresto cardiaco. Un amore che dura una vita e il finale di una morte simbiotica. Non desideravo nient’altro.
Sia è morta da tre anni, di mercoledì. Incidente stradale. Centodieci chilometri orari infranti sulla corteccia di un albero. Morte sul colpo. Provai a chiamarla dodici volte. In obitorio era stato difficile riconoscerla. Occhi chiusi, una ricucitura obliqua sul lato destro della testa, le braccia inermi lungo i fianchi, le mani viola. La punta del naso era gelida. Riconobbi il suo volto solo grazie a un taglio sul labbro che già conoscevo. Nei miei pensieri ero certo di poterla salvare da qualsiasi cosa ma ero stato inutile. Il mio sangue o i miei organi non erano serviti a nulla e un albero mi aveva strappato via tutto.

Giallo fluo era il colore dei liquidi gastrici che vomitai il giorno dopo il suo funerale. Avevo una ragnatela nel petto che si espandeva senza controllo. I fili si moltiplicavano e trascinavano gli organi verso un buco nero creato dal dolore. Il ragno continuava a filare e la mia vista perdeva la capacità di registrare i colori. La ricerca del perché fosse morta di mercoledì era estenuante. Un giorno di mezzo, che si attraversa reduci dal lunedì e in attesa del venerdì. Perché?
Un bolo di titanio si incastonò nel ventricolo sinistro del mio cuore e non ne uscì più. A ogni sistole, ricordavo una nota della sua voce. Speravo in una tachicardia eterna per poterla sentire di nuovo. Allargavo le braccia, a letto, nella speranza di incontrare il suo corpo. Ero solo.

Qualche mese dopo la sua morte passai ventisei minuti a riflettere sulla parola contorsione. Leggevo su un dizionario: “[Di una parte del corpo:] il ripiegarsi su di sé con movimenti bruschi e violenti.” Subito l’estremità destra della mia bocca veniva tirata verso l’alto come da un filo. Annuivo. La contorsione era il modus operandi del mio dolore. Pensavo a come latto di contorcersi fosse un’azione dinamica e pulsante. Una mela che marcisce, oggetto statico, sta effettuando una contorsione? Il dolore si muoveva dentro di me rompendo le regole della fisica, me lo immaginavo scontrarsi fra le pareti del torace, o mentre correva tra le curve dell’intestino trovando riposo solo nel vuoto dei polmoni. Dopo queste riflessioni non stavo meglio, ma sapevo che la contorsione era un nodo di muscoli in tensione. Lunico modo di provocare il rilassamento di quel groviglio era usare l’acqua. Dovevo farlo per Sia, per la patina liquida che accendeva i suoi occhi. La stessa che mi perseguitava nei sogni, sulla quale veniva proiettato il filmato della nostra breve esistenza condivisa.

Quaranta
Il giorno in cui scoprii che io e Sia avevamo lo stesso gruppo sanguigno, la pietra balzò sul pelo dellacqua per ben sette volte. In riva al mare, lì dove da bambino rimanevo sbalordito nel vedere il mio riflesso distorto, le avevo chiesto: “Cosa credi ci sia dopo la morte?”. “Un eterno gocciolare di defunti. Fin quando le anime non saranno così tante da formare una cascata dirompente. E scivoleremo tutti, sì, scivoleremo tutti nel nulla.” rispose. Notai un piccolo taglio sulle sue labbra, proprio nellistante che precedeva il nostro primo bacio. L’attimo seguente la baciai con la stessa tempestività delle piastrine nella loro azione coagulante. Fu un’opera di sutura delle nostre ferite: una frenesia chimica mai provata. Ho impresso le mie labbra su quella piccola ferita come se potessi cicatrizzarla con la mia saliva.

Trenta
Sia giocava sempre a trattenere un pugno di sabbia. Stringeva forte le dita contro il palmo e teneva la mano serrata, come se fosse sul punto di stritolare un qualcosa di vivo. Con lentezza allentava la presa del mignolo, subito si apriva un varco per i granelli che iniziavano a scivolare in un flusso discontinuo, pronti a ricongiungersi con tutti gli altri. Una clessidra autoprodotta che aveva la durata di una trentina di secondi e terminava con la pulizia delle pieghe della mano. In quel mezzo minuto di silenzio, avrei potuto trovare dieci parole. Sarebbero state anche cento o mille, se solo avessimo avuto altro tempo. Ma un vento forte aveva portato via tutto: la sabbia, il pugno, lei. Rimaneva, per me, solo il mare.

Venti
Nelle lunghe nuotate arrivava sempre un momento in cui i nostri corpi si univano in un abbraccio per riscaldarsi a vicenda. Lamore era nella mia testa una creazione acquatica: una sostanza che penetra ovunque, anche dove nessuno vorrebbe, cambiando di continuo stato e forma. Provavamo a toccare il fondale con la bocca, attività semplice quando eravamo a riva, molto complessa in mare aperto. Fu in un momento come questo che lorologio di Sia si slegò dal suo polso e, seguendo una traiettoria lineare in acqua, si andò a scontrare con una pietra. Il fatto che se ne fosse accorta subito mi aveva permesso di intervenire in tempo. Mi lanciai verso il basso, con il braccio teso alla ricerca di un contatto, le orecchie iniziavano presto a subire la pressione della discesa, e proprio sul punto di terminare lossigeno, lo afferrai. Lorologio si era fermato. Non immaginavo che qualche anno dopo lo avrei tenuto io per sempre.

Dieci
Non buttai nulla che le era appartenuto. Il suo orologio rotto segnava sempre le 13:05. Un orario che non aveva nulla a che fare con lora del decesso, ma che presi come riferimento per dedicarle un pensiero. Un modo di essere connesso a lei, come se potesse ascoltarmi.

Al terzo anniversario della morte, proprio a quellora, mi trovai a leggere un biglietto che recitava: Sono uscita due ore prima. Stai dormendo, sembri un cadavere. Ti ho lasciato la colazione pronta. Ti amo! Tua Sia

La grafia tremolante di chi è in perpetuo stato di fretta. Sia lo aveva lasciato sul tavolo per avvisarmi che avrebbe anticipato la sua uscita. Era la prima volta che lo leggevo dopo quel mercoledì. Ricordarla aveva la doppiezza di una sostanza dannosa: allinizio era un rilascio di dopamina, la sentivo più vicina che mai, e subito dopo veniva lastinenza.

In preda a una forte contorsione, presi il primo costume che trovai nellarmadio e mi fiondai verso il mare.
Un’ora dopo avevo già i piedi immersi in acqua. Le nuvole oscuravano il sole a intermittenza, prima ombra poi luce. Tolsi la maglietta e un brivido corse dalla caviglia fin sopra al cuoio capelluto. Landamento del mare rispecchiava il movimento interno del mio dolore, che aveva ripreso a correre tra gli organi. Non ero un nuotatore esperto ma decisi che l’antidoto per la contorsione avrebbe dovuto avere la forma delle bracciate a stile libero. Mi tuffai di scatto, percependo limmediata variazione di temperatura. I piedi si scontravano in un duello feroce con la densità dellacqua, cercando di ottenere dalla spinta quanta più forza motrice. La mia velocità aumentava, il contatto con la realtà si limitava allattimo in cui la bocca prendeva aria. La dinamicità delle correnti mi esortò ad andare più veloce fin quando un’onda mi negò un respiro. Ingoiai lacqua, iniziai a tossire, la testa lottava alla ricerca di ossigeno. Le braccia si muovevano in una peristaltica battaglia per rimanere a galla. Il panico accelerava i battiti e una forza mi trascinava verso il basso. Avevo letto che durante l’annegamento la glottide può serrarsi fino a sessanta secondi circa per evitare che i polmoni si riempiano di acqua.

Zero
Mentre vengo attratto verso il basso, il tempo è finito. Prima del silenzio, mi rimangono gli ultimi millisecondi. Devo trovare dieci parole fra uno spasmo e laltro, lanciarle nella mia mente. ACQUA; La vista del sole da sottacqua è pacifica. La sua opacità lo rende meno detestabile. SALIVA; La distorsione visiva si allinea a come ho sempre osservato il mondo, una linea obliqua dove tutto è destinato a scivolare. PLEURA; Un rumore sordo nelle orecchie accompagna il suono dellacqua che riempie i bronchioli. OSSIGENO; Il titanio resiste allacqua più di quanto il mio cuore possa sostenere. GRAVITÀ; Sono allultimo gradino della mia esistenza, sommerso in ogni lato. EPIDERMIDE; La pressione sistolica diminuisce con l’assenza di ossigeno nel sangue, la voce di Sia non viene più riprodotta. VENTRICOLO; I muscoli iniziano a perdere forza, raggiungendo la loro massima distensione. TENDINI; Tutto inizia a perdere confine e lucidità, il panico si è calmato e inizio ad atterrare. CORALLO; La contorsione si scioglie e io crollo in un lento processo catabatico verso la morte. FINE

1 Reply to “Glottide“

  1. Coinvolgente ed emozionante !!Ti da un senso di caldo pieno che inizia dalla base dei polmoni e invade tutto il petto arrivando alla gola che si restringe per l’emozione ee l’attesa di scoprire altre emozioni .
    Molto ben scritto e convincente nelle due espressioni .
    Vai avanti ,non ti fermare
    Facci partecipare ai tuoi bellissimi sentimenti ,ti aspettiamo con ansia profonda simpatia ( secondo la sua accezione greca siun…pasco. [metto laa pronuncia in mancanza della disponibilita’ del lemma greco]) Patisco insieme nel senso che partecipo al tuo sentimento di sofferenza si’ ma *NON* NEGATIVA !!
    VOGLIO LEGGERTI ANCORA
    TI ASPETYO E TI ABBRACCIO CON TANTO AFFETTO PER LE EMIZIONI CHE MI HAI LIBERATO: ME LE IMMAGINO COME QUANDO TU APRI UNA GABBIA E GLI UCCELLI CHE VI SONO PRIGIONIERI VOLAMO VERSO IL CIELO E LA LIBERTÀ. 🥰🥰

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