«L’abbiamo sempre fatto insieme» dissi ad Arturo non appena mi invitò ad andarmene.
Si tolse il cappello, scosse la polvere dalla tesa e lo appese all’attaccapanni. Di spalle, rispose: «Se per la maggior parte del tempo l’abbiamo fatto insieme, non vuol dire che non possa farlo da solo». Si voltò e mi tese la mano piena di calli.
Era appena tornato dalla Bolivia, quando rilevammo il chiosco accanto al cimitero. Pablo, suo figlio, aveva da poco compiuto tre anni. Non voleva mai venirci a trovare, lo impressionava la figura con la falce incisa nel rosone all’entrata del camposanto.
Da allora, se non ero fuori a fumare, i giorni in cui uno di noi si assentava dal baracchino era perché o stava male o doveva sbrigare qualche servizio.
Gli amici scherzavano sulla nostra intesa, dicevano che era così forte perché eravamo gemelli. Ci parlavamo con gli occhi e sentivamo le risposte sulla pelle, ma se voleva sugellare un patto, Arturo mi porgeva la mano come si fa con i clienti. Gliela strinsi in segno di rispetto: in fondo, aveva ragione lui.
Diedi l’acqua alle mellifere aromatiche e uscii, facendogli credere che avrei preso la strada di casa come mi aveva detto di fare. Invece, rimasi a guardarlo da sotto la tettoia sul retro, accanto a vasi in disuso e a piante avvizzite. Lì scompattai il Burley inumidito e caricai la pipa, che non accesi per evitare di spargere l’aroma del tabacco. La tenevo tra le dita e, inclinandola, osservavo i riflessi del neon sulla radica venata di nero. Nel cielo mattutino, il sole era pallido. Sentii Arturo dire: «Andremo via verso le tre e mezza e torneremo dopo le sei.» Allora mi avvicinai alla vetrina, scostato il più possibile di lato. Impalato e assente, rispondeva monosillabi al telefono finché concluse: «Lascio il cancello socchiuso. Mi raccomando, non deve rimanerne traccia.»
Mise il cellulare accanto alla cassa.
Lo sguardo gli moriva sui piedi.
Dopo essersi sfregato gli occhi, ritagliò la spugna in due forme: un rettangolo per il cuscino da depositare sulla bara e un piccolo otto, grande quanto il palmo di una mano, che immerse nel lavello affinché assorbissero l’acqua necessaria a mantenere freschi petali e boccioli nell’adorno. Seduto sulla sedia impagliata, prese da sotto il tavolo il secchio col pitosforo e se lo sistemò tra le ginocchia. Nelle sue dita le foglie brillavano di un verde intenso, mentre ne faceva mazzetti. Al centro di ognuno, poneva un fiore. Adesso ce n’erano una montagnola sul piano d’acciaio dove eravamo soliti lavorare. Assicurati col fil di ferro a steli di plastica appuntiti, Arturo li conficcava uno dietro l’altro nella spugna grondante, allineandoli con cura a file alterne: una di gigli coi pistilli ramati, una di rose a doppia corolla, una di orchidee dal labello giallo chiaro. Di nuovo gigli, rose, orchidee. Tutti fiori bianchi.
Assestò la nebbiolina, tolse qualche foglia di troppo e, ultimata la composizione, si fermò ad accarezzarla, prima di estrarre dal frigo le clematidi. Con quelle rivestì il piccolo otto. Considerate di buon augurio per chi intraprendeva un viaggio, simboleggiavano la gioia del viandante nel suo andare.
Quando prese il nastro viola, però, non ce la feci a rimanere a guardare. Mi strinsi nel giaccone e mi avviai. Accesi la pipa in strada, dimenticai di fumarla.
Le nostre abitazioni erano contigue, due modeste villette in cortina rossa i cui giardini confinavano in tutta la loro lunghezza. Il gelsomino della rete divisoria l’avevamo voluto entrambi. A maggio si puntinava di bianco e la sua fragranza ci portava l’estate. Avevamo scelto insieme anche i fiori per le aiuole: selezionati con cura, erano stati messi a dimora non prima di aver posto attenzione all’arco del sole, all’ombra, all’umidità.
Arturo aveva deciso da solo un unico albero. Fin da ragazzo diceva che ne avrebbe piantato uno alla nascita di ogni figlio. Dopo tanto attendere arrivò Pablo e per lui scelse l’alloro, che sistemò in quello che, a suo avviso, era il punto migliore: l’angolo in fondo a sinistra, tra il capanno degli attrezzi e il muro di recinzione basso, senza grate e confinante con la statale.
Venticinque anni insieme, Pablo e l’alloro.
Arturo li aveva accompagnati nel cammino: medicine per uno, antiparassitari per l’altro; la mano a sostenere i primi passi del bambino, tre canne a tetraedro intorno al giovane tronco; il taglio dei capelli, la potatura dei rami.
Venticinque anni per mettere radici salde: uno nella vita; l’altro nella terra.
Il cancello era aperto, in molti entravano per l’ultimo saluto. Sul capanno, le fronde più alte dell’alloro erano spade verdi che fendevano l’aria ancora immobile e il cielo grigio. Le raccolsi con lo sguardo. Scossi la testa più volte. Pablo aveva imparato ad alzarsi sorreggendosi a quel tronco, nello scudo d’ombra della chioma era caduto più volte, prima che i suoi piccoli piedi smettessero di traballare. Poi lo studio, i compiti sul tavolinetto di legno, le letture sopra al plaid a quadri arancioni. Le festicciole in estate con la brace. Il primo bacio.
«È più facile raccontarlo a te, zio», diceva. Sapevo anche della dichiarazione d’amore importante, quella fatta a Mirna. Con lei aveva scoperto le carezze audaci sull’erba umida, la fragranza dell’alloro condiva gli abbracci, entrava in gola con le parole sussurrate. Io, che figli non ne avevo avuti, mi gloriavo di tanta fiducia.
Ora in lontananza incombevano dense nuvole e l’orizzonte diventava scuro oltre la chioma che prese a ondeggiare, agitata dal vento di piovasco. Si era alzato improvviso da sud, anticipato da un lampo che aveva tagliato in due il cielo d’acciaio. Le foglie sull’erba si sollevavano in leggeri mulinelli al mio passaggio. Il prato odorava di sottobosco.
L’umidità aveva appesantito la ghirlanda di cartapesta viola sulla porta d’ingresso, messa lì da mia cognata Lupe il giorno precedente per avvertire che la notte ci sarebbe stato un velorio. Prima di accasciarsi su una sedia e non muoversi più, infatti, aveva disposto tutto secondo la sua tradizione. Tutto tranne la bara col riquadro di vetro all’altezza del viso che si usava in Bolivia, per questo aveva impedito la chiusura di quella che avevano comprato, chiara, semplice, in legno d’ulivo.
Ritrovai Lupe così come l’avevo lasciata: seduta tra il feretro e la base di ottone su cui ardeva un cero che ne illuminava il profilo. Con le mani sulle ginocchia e gli occhi negli occhi del figlio, porgeva composta la guancia, bianca come il raso che foderava la cassa.
La sala da pranzo era attraversata da una luce smunta e dal suono di un siku andino. Fili di bandierine nere e viola partivano dal lampadario per aggrapparsi ai quattro angoli della stanza.
C’era odore di chiuso, di cera, di cibo.
Sul tavolo di mogano addossato al muro erano stati rimboccati i vassoi, riempiti i taglieri e colmate le zuppiere. Il formaggio criollo accanto alle masitas, le zuppe fumanti di patate, mais e quinoa tra salteñas e empanadas. C’erano i thermos del tè e del caffè sopra il tavolinetto basso, e le bevande alcoliche consumate in quantità la notte da chi, amico stretto o parente, era venuto ad accompagnare il defunto verso l’aldilà in un clima festoso, senza lacrime a rallentarne il viaggio. «Perché è adesso che comincia a camminare», aveva detto Lupe. «In uno strato sottostante al nostro, ripercorrerà a ritroso le orme lasciate in vita. Passo dopo passo, fino all’Ukupacha.»
I convenuti della mattina, però, non erano a proprio agio con quel banchetto funerario: evitavano di avvicinarsi al cibo; chi si era servito non mangiava e non beveva. Eppure quella era la sala dei pranzi e dei compleanni, dei rinfreschi della prima comunione e della cresima. Avevamo sempre mangiato in quella sala.
«Perché questi?» mi chiese Don Antonio, indicando un piatto di lasagne, una brocca d’acqua e un poncho di lana sistemati su una panca che faceva da altare ai piedi della bara.
«Perché durante il viaggio possa mangiare il suo piatto preferito, bere acqua fresca e ripararsi dal freddo, dovesse sentirlo».
«E le bandierine?»
«Semineranno allegria al suo arrivo.»
Lo sconcerto di Don Antonio si sommava a quello dei presenti. Continuava a tenere il piatto in mano, a guardarlo titubante.
«È un’offesa non accettare» sorrisi, poi mi accorsi di Mirna. Era andata a cambiarsi dopo aver vegliato Pablo, in piedi, sola e lontana da tutti. L’abbracciai. Aveva gli occhi gonfi. Era tornata con gli amici dell’università, anche loro con gli occhi gonfi e le guance rigate. Niente fiori, era stato detto. Né in casa né fuori. Allora avevano portato libri, poesie, biglietti scritti a mano. A turno si avvicinavano per deporli nella bara, con la giovinezza paralizzata sui volti e gli sguardi fissi su quel corpo duro. Ti penserò all’infinito, la dedica di Mirna a Pablo nel libro di matematica comprato a metà.
Gli unici adorni floreali li avrebbe portati Arturo. Entrò diffondendo una fragranza delicata, pressoché impercettibile. Lo sguardo davanti a sé, il passo quasi strascinato. Chi lo avvicinava si limitava a sfiorarne un braccio, una spalla. Quando Arturo era entrato, era calato un rispettoso silenzio.
Prima di sedersi accanto alla moglie, aveva appoggiato il cuscino di fiori sul muro, dietro la bara, e sistemato la scritta dorata: Mamma e Papà.
Le donne stringevano le mani di Lupe, piangevano al posto suo. Le più anziane snocciolavano un rosario col capo velato di nero.
Gli uomini rimasero per lo più fuori, alcuni avevano la fascia al braccio. Facevano capannelli in veranda davanti alla porta semichiusa e parlavano con gli addetti delle pompe funebri che, una volta sistemata la salma, lasciarono alla famiglia il tempo necessario al commiato.
Lupe e Arturo non si alzarono mai. Annuivano e basta. Lupe e Arturo annuirono finché non rientrarono i becchini.
Sostenendosi l’un l’altra si avvicinarono al corpo. Compassati e dignitosi, emettevano singulti necessari a riprendere fiato, come se respirare per loro non fosse più naturale. Lupe si chinò sulla salma: ne baciò gli occhi chiusi, accostò la guancia calda a quella fredda di Pablo, la tempia a quella livida del figlio. Non riuscii a portarla via, mi supplicava con lo sguardo, diceva: «Lasciamelo sentire freddo. Devo sentirlo freddo. Lo capisci che devo sentirlo freddo?» Opponeva una resistenza passiva e determinata mentre ripeteva: «Devo sentirlo freddo per poterlo lasciare andare e convincermi che è vero.»
Fu Arturo a sollevarla. La strinse forte a sé prima di consegnarla, quasi, tra le braccia di mia moglie. Poi tirò fuori da una scatola di carta la piccola composizione a forma di otto e la depose sulle dita intrecciate di Pablo: i petali delle clematidi si rincorrevano, rossi come le squame della lemniscata tatuata che fuoriusciva dal polsino della felpa.
Nessuno dei due pianse. Neanche quando vennero strette le viti. Lupe e Arturo non piansero mai.
Tenevo le mani dietro la schiena, intanto Arturo adagiava il cuscino sul coperchio. Ricompose un vuoto nel verde, sistemò il nastro viola. Alzammo lo sguardo insieme non appena ebbe terminato e, all’unisono, ci posizionammo agli angoli del lato corto della bara. Due amici di Pablo presero il posto dei becchini. Loro dietro, io e Arturo davanti. Pochi passi e attraversammo la veranda. Aveva preso a piovere fitto, i tre scalini che portavano al prato erano bagnati e scivolosi. Poggiammo la cassa sulla base scorrevole della lunga auto grigia, gli addetti dell’agenzia funebre la spinsero dentro e chiusero il portellone. Accanto a mia moglie, Lupe fissava oltre il vetro la scritta dorata: le parole Mamma e Papà cadevano ai lati della bara, cingendola in un’ultima stretta. Quando la macchina partì, procedemmo dietro a passi corti. Io tenevo Arturo sottobraccio.
La pioggia pungeva la pelle, picchiava forte sugli ombrelli che attraversavano il giardino per imboccare la statale. Tutto il paese aveva saputo e fuori erano in tanti ad aspettare. Si accodarono a noi, ingrandendo il corteo con flemmatica compostezza. Le automobili che passavano, invece, rallentavano all’altezza dell’alloro, quelli che erano all’interno fissavano il marciapiede, calamitati dalla recinzione sventrata. Procedevamo già in direzione del cimitero quando un pick-up si fermò proprio davanti casa di Arturo. Ne scese un uomo, aprì il cancello. Riconobbi la ditta di giardinaggio dalla scritta sulla fiancata e ricordai le parole di Arturo quella mattina nel chiosco: “Non deve rimanerne traccia”. Strinsi più forte il mio braccio intorno al suo, l’altra mano cadde sul braciere freddo della pipa nella tasca del giaccone.
Pablo stava tornando a casa, quando un camion sbandò e lo prese di spalle. Lui neanche lo vide. Forse sentì la frenata, che in ogni caso non gli diede il tempo di voltarsi né servì a salvarlo. L’urto lo sbalzò via, gambe all’aria. Oltrepassò il muretto e atterrò senza scarpe sull’unico ostacolo. Il tronco era ancora rosso nel punto dell’impatto.
