Mia madre pensa che il freddo mi colpisca solo al collo. È per questo che mi obbliga a indossare giacche che mi stringono forte e mi tolgono il respiro. A lei non importa che le maniche siano corte. L’importante è avere il collo coperto.
Non capisco perché si dia sempre così poca importanza ai polsi. Anche loro hanno freddo, a volte. I miei sono forti, ormai, e si sono abituati a tutto.
A stare nudi, alle prese in giro dei miei compagni, si sono abituati al peso della mia testa, quando mi appoggio su di loro e aspetto… mia madre.
Quando va a lavorare, di sera, mi porta sempre con lei. E io devo stare seduto e zitto in case sempre diverse. Spesso mi fermo all’ingresso, a volte in cucina, dove le signore mi vogliono offrire un bicchiere di latte. Lo bevo molto lentamente, perché a me il latte non piace, ma almeno ho qualcosa da fare in tutto quel tempo. Io preferirei starmene a casa, così potrei stare senza giacca e giocare come voglio. Sì, perché nelle case degli estranei non ci si può togliere la giacca, è un gesto di confidenza che io non mi posso permettere, devo stare al mio posto, dice la mamma. Il mio posto è casa mia. Se non c’è papà, lei non mi lascia. Ha paura che possa farmi male. Ma come posso farmi male se l’unica cosa che mi fa male davvero, sono le giacche che mi mette? Quando ero più piccolo ho staccato un bottone con i denti e l’ho ingoiato. Potevo morire. Ma sono ancora vivo. Vivo e con tante giacche.
Mia madre dice che le mie giacche sono state cucite apposta per me da mia nonna. Io non ci credo, perché mia nonna è morta tanti anni fa. Come faceva a sapere di me? Infatti non sapeva proprio niente. Se fosse ancora viva glielo direi: “Cara nonna, hai sbagliato tutto! Le giacche che fai non mi piacciono per niente”. Forse, così, si offenderebbe. E si offenderebbe anche mia madre, che è una persona molto speciale. Non lavora tutti i giorni, ma quando lo fa è sempre per un miracolo. Lei dice così. Perché lei aiuta le donne a partorire. Non so come funzioni esattamente la cosa, ma penso sia molto dolorosa. Mentre aspetto sento sempre tante urla. Tante donne, tante urla, tanta acqua, tanti panni, tanto sangue.
Una volta l’ho visto, e non lo dimenticherò mai. Era inverno. Non mi avevano fatto neanche entrare in casa. Anche se in realtà quella non era una casa, era solo una stanza. Isolata e buia. Sembrava messa lì temporaneamente, come se da un momento all’altro dovesse arrivare una grande mano a spostarla senza fatica. Le finestre erano rotte e si sentiva tutto. Ma non distinguevo le parole. Perché le donne che partoriscono e quelle che le aiutano a partorire, in quel momento penso che parlino in una lingua tutta loro. Un cane apparso dal nulla mi ringhiava contro. A me scappava la pipì. Ero fermo, terrorizzato e senza respiro per via della giacca. Avevo il singhiozzo, l’affanno come quando si fanno le corse. Il cane, la pipì, la lingua delle donne, l’affanno, tutto insieme. Maledetta giacca!
Mi sentii tirare da uno dei miei due polsi nudi. Era la mano calda e sporca di mia madre. Senza dirmi niente mi sfilò la giacca con violenza e subito avvolse dentro il bambino appena nato. Una donna seminuda piangeva, il pavimento era sporco di sangue e terra e io, finalmente, respiravo.

Intenso