La prima notte non feci caso alla pianta.
L’appartamento era pieno di scatoloni per il trasloco, i mobili non del tutto montati. Pensavo che avremmo finito il lavoro in una settimana, o due, e così per le prime notti non ci serviva altro che il divano in soggiorno, un materasso dove sdraiarci in camera, una valigia aperta da cui vestirsi, e un bollitore per il tè. Mi sentivo piena di una gioia esuberante. Era così grande che a volte prendeva tutto il mio tempo, la mia attenzione, e mi ritrovavo a spostare oggetti per la casa senza sistemare niente. Passavo il giorno così, in uno stato di euforia incontrollabile, e la notte mi stringevo al suo corpo sempre caldo. Mi baciava la fronte e mi riscaldava i piedi freddi anche se era una primavera tiepida. Poi scivolava in un sonno tutto suo, e io restavo sveglia, e mi spostavo in soggiorno tra le mie cose sparse. Là c’era solo la pianta a farmi compagnia.
La pianta era un regalo di mia madre. Doveva significare un augurio di buon inizio. Non potendoci venire a trovare, perché tra noi e lei c’era un volo di cinque ore, ci aveva spedito un vaso, della terra, delle radici. Mia madre e lui non si conoscevano. Una barriera linguistica e identitaria separava le mie due vite. Io e lei veniamo da un posto caldo, dove le cose si fanno con calma e ne si osservano i risultati a lungo, accompagnandoli nelle proprie vite. Per noi, gli amori sono cose serie. Lui viene da un posto dove le persone si amano velocemente, senza dirselo, passioni segrete che non ci si confessa nemmeno a cose finite, che si vivono solo nei corpi e sulla pelle e nel caldo delle case, e mi ha chiesto di vivere con lui sei mesi e un giorno dopo avermi incontrata.
La seconda notte, seduta sul divano, ho preso il telefono e aperto la galleria delle foto. Quando ho incontrato quest’uomo, sembrava che le stelle mi avessero condotta a lui. A un concerto di giovedì sera, due settimane dopo il mio trasloco nella sua terra, mi aveva servito una birra al bancone, poi un’altra, e poi aveva chiuso un occhio mentre io passavo nel retro per conoscere i membri della band. Quel weekend mi aveva portata a sciare, e dopo due mesi avevo conosciuto i genitori e passato un fine settimana a guardare la neve sciogliersi in bassa montagna. Con lui la vita aveva bisogno di poche spiegazioni. Nella galleria delle foto c’era qualche falò, notti in tenda in cui cercava di convincermi che la vita all’aperto fosse migliore, e tutti i piatti che gli ho fatto assaggiare e che non gli sono piaciuti. Quando l’avevo conosciuto parlava dei suoi ultimi anni da studente che vedeva già tramontare, e dei bambini e della famiglia e dell’appartamento che presto avrebbe voluto avere. Quei discorsi mi inzuppavano come un liquore troppo dolce, e dopo mi restava addosso la colla di progetti che non sapevo come prendere. Nella galleria delle foto, questo vedevo: lui aveva progettato la vita per tutti e due, e io avevo chiuso gli scatoloni.
Quella notte, spostando gli occhi sulla pianta, notai che le foglie si erano alzate, e puntavano al soffitto. Erano foglie di un verde intenso, striate di viola e rosa scuro, che di giorno avevo visto morbidamente ripiegate su se stesse, all’ingiù. Magnifiche. L’adesivo sul vaso diceva Calathea roseopicta. Una pianta che abita il fondo delle foreste tropicali, lontana dal sole ma sempre tesa a raccoglierne gocce di luce. Era in qualche modo finita nel nostro nuovo appartamento, di notte doveva faticare per trovare spazio vitale. Il vaso era troppo piccolo per le sue radici già importanti che avevo visto uscire da sotto, ma non sapendo travasarla l’avevo solo messa su una pila di riviste in un angolo del pavimento. Ora, nella penombra delle due del mattino, gli steli stavano dritti, fieri, cercando aria o luce o spiegazioni da quell’ambiente nuovo. Guardarla mi disturbava. Seduta sul divano, nella casa buia, sentivo lui agitarsi a letto, nella stanza accanto. Mi misi le mani a coppa sulle orecchie.
La terza notte pensai a qualcosa che mia madre aveva detto diciotto anni prima. Una bella batosta. Dovevo avere otto, dieci anni, ero alle elementari. Ogni volta che uscivamo di casa, io trascinata quasi sul marmo della pavimentazione dalle sue braccia forti, venivamo fermate da qualcuno, conoscenti, gente del quartiere che a turno diceva di aver visto me, o lei, in fasce. Quando si incontrava qualcuno, ci si fermava. Di lui ci chiedevano sempre. Come state, come l’avete presa. Lei sospirava, inclinava gli angoli della bocca, ciondolava un po’ la testa. Poi diceva: è stata una bella batosta. Non le avevo mai sentito dire quella parola. Dopo, non l’avrebbe mai più detta. Mia madre apprezza la grazia delle cose effimere, va oltre con gran facilità. Batosta aveva un suono fastidioso, ricordava le botte. Come potevano quelle due parole, una sagoma di cartone ritagliata dal vocabolario delle espressioni preconfezionate, dei modi di dire scialbi, usati, come poteva quel suono assonante esprimere l’enormità del nostro dolore? Raggiunsi lui che dormiva di là, mi strinsi alla sua schiena scoperta nel buio del materasso grande. Niente più incubi, avevo promesso. Gli incubi dovevano finire con l’amore vero, con le spalle calde da abbracciare sotto le lenzuola. La permanenza delle cose era la loro qualità più apprezzabile.
La quarta notte ero sola perché lui lavorava a un evento. Potevo occupare lo spazio di tutta la casa, eppure me ne stavo rintanata nel suo angolo del letto, cercandone il profumo sulla federa. Le coppie che resistono sono quelle che si proteggono, avevo sentito dire. Dagli altri, da sé, e dalla sfortuna. Io non sapevo cosa ci avrebbe attaccato per prima, ma non mi sentivo abbastanza forte per proteggere. Come la mia pianta, mi ritrovavo all’improvviso con radici troppo pesanti e senza parole da condividere. Da dove viene lui, di amore non si parla. Le cose iniziano, finiscono senza parole, si vive per la sostanza e per i giorni bui da affrontare insieme, e io sentivo che senza parole non ero niente. Quando lui è rientrato ero già addormentata, l’ho sentito spogliarsi e raccontarmi del suo lavoro, del tragitto verso casa, e delle lampade che avremmo dovuto comprare nel fine settimana per non continuare a muoverci al buio, nella casa di notte. Le sue parole toccavano solo la concretezza del presente, la quotidianità in cui credeva con tutto il cuore, e che a me si stringeva intorno al collo, la notte, come il sottovaso della mia pianta inquieta.
La quinta notte ho dormito sul divano, le dita allungate a carezzare le sue foglie scure. La loro audacia mi offendeva. Le volevo strappare, tarpare le ali a quel desiderio di libertà in un atto di misericordia. Lui è venuto a cercarmi verso le prime ore del mattino. Mi ha detto, nella sua lingua che ora è anche la mia, ho freddo di là senza te. Gli ho fatto spazio sul divano. Ho sempre pensato che le parole pesassero quanto le emozioni, più delle emozioni, e che nei momenti di annebbiamento le avrei avute a disposizione per schiarire la confusione. In quella lingua, invece, riuscivo a parlare solo di cose, oggetti. Del freddo fuori, del ghiaccio sulle panchine, degli infissi alle finestre, degli scaffali da montare. Non avevo parole per i sentimenti, nessuna per la confusione. Poteva esserci amore nei vuoti verbali? Potevo mettere radici su un terreno bucato?
Non siamo arrivati alla sesta notte. Le parole della sua lingua le ho portate con me. La Calathea roseopicta l’ho lasciata nell’appartamento. La notte, nella penombra della mia stanza, mi capita di immaginare le sue foglie drizzarsi, puntare su, verso i cieli troppo lontani sopra le foreste amazzoniche, e la rimpiango, a volte, guardando fuori dalla mia finestra verso il cielo nero di Oslo.
